Bertinotti e il comunismo

Pierluigi Sullo

Una gentile polemica con i nostri compagni del manifesto? Ma sì, discutere fra amici fa bene al metabolismo. L'argomento è Rifondazione comunista. Mettiamo le mani avanti: non siamo partigiani né iscritti. Anzi, come è noto pensiamo che la forma partito novecentesca sia assai difficilmente riformabile (anche se siamo pronti a cambiare idea, visto che camminiamo domandando). Per questo, troviamo molto interessante il percorso congressuale di Rifondazione: un tentativo onesto di - per usare un modo di dire banale - gettare via l'acqua sporca, salvando il bambino. E se questo tentativo ha una qualche possibilità di riuscita, questo si deve al fatto che il partito ha frequentato, assorbendone modi e linguaggi, e svolgendo un ruolo "non egemonico", la più grande novità di questi anni: il movimento globale contro il liberismo.

Ora, perché rinfacciare a Bertinotti di aver detto che il comunismo del novecento è stato anche strumento di oppressione, come fa "Jena" sul manifesto di martedì, affermando in sostanza che è la stessa cosa che disse a suo tempo Veltroni, ossia che il comunismo non può coincidere con la democrazia? Una battuta è una battuta, d'accordo, vale per il momento e per il gusto di farla: dunque, diciamo che la usiamo solo come occasione, per conversare un po'.

Il manifesto si chiama "quotidiano comunista", e in passato ha (abbiamo) difeso orgogliosamente questa autodefinizione. Nel senso preciso che quella parola aveva all'atto di nascita del manifesto (giornale e gruppo politico), ovvero la rivendicazione della libertà di critica, e la spinta all'innovazione di fronte a quel che accadeva, il Sessantotto e la rivolta operaia della fine degli anni sessanta. Proprio per questo nessuno si è mai sognato di difendere il cosiddetto "socialismo reale", sul quale, al contrario, il manifesto aprì in quel decennio un dibattito coraggioso. Dunque, con quella battuta il manifesto non dice: ah, traditore, bisogna difendere l'ortodossia. "Jena" non è Armando Cossutta. Né certamente sfugge al manifesto che dal comunismo novecentesco si può cercare di uscire in due direzioni opposte, quelle che appunto si sono materializzate, nel corso degli anni novanta, nei Ds, che hanno sposato la visione liberale (e liberista) delle cose, e in Rifondazione, che appunto in questo momento cerca di dare un senso compiuto al suo proprio nome: rifondazione (del comunismo).

Allora, perché? La nostra impressione, anche se potremmo sbagliarci, è che il manifesto sia rimasto spiazzato dalla proposta (avanzata da Bertinotti in una intervista a Piero Sansonetti dell'Unità) di un avvicinamento, o unità d'azione, con il centrosinistra. Spiazzato perché, dal momento della rottura con il governo Prodi, il manifesto ha in generale guardato a Rifondazione come a una formazione auto-paralizzata in una opposizione di principio, politicamente inesistente, dacché la politica attiva, per quanto moderata, era ed è quella che cerca di combinare gli ingredienti per conseguire una vittoria elettorale e il governo del paese. In sostanza: siccome "Jena" non pensa che la "politica", quella nazionale, sia, in tempi di globalizzazione, in una crisi irreversibile, e abbia la necessità di ricostruirsi dalle fondamenta, cioè dai movimenti sociali, ecco che l'affermazione di Bertinotti sul comunismo gli appare un'ulteriore mossa "tattica" nel processo di riavvicinamento al centrosinistra. Le cui ulteriori ragioni, come si evince dai titoli del giornale di martedì, sono "le amministrative", cioè l'ottenere nel maggior numero possibile di città di stipulare accordi con l'Ulivo, e "il congresso", cioè la necessità di mettere a tacere gli oppositori interni, i quali, oltre che essere conservatori e ortodossi (non direbbero mai che il comunismo è stato anche oppressione), rimproverano alla maggioranza di aver abbandonato la togliattiana "politica delle alleanze" in nome di un rapporto con "il movimento", ciò che ad orecchie tradizional-comuniste suona come una rinuncia, appunto, alla politica.
In questo modo, si disegna un orizzonte politico di Rifondazione che non va più in là della punta delle scarpe di Bertinotti: un estremista costretto, dalla stessa astrattezza delle sue proposizioni generali, a fare una politica che un tempo si sarebbe chiamata "di piccolo cabotaggio".

Ripetiamo: può essere che tutto questo ragionamento sia privo di fondamento. E può essere anche, anzi è probabile, che congresso e amministrative siano "effetti collaterali" che la direzione di Rifondazione non disdegna. Ma a noi sembra che la ragione di fondo dell'offerta al centrosinistra sia un'altra, e stia proprio nel fatto che il movimento antiliberista è tutt'altro che una meteora (nella tradizione, alla parola "movimento" era associata la provvisorietà e la disorganizzazione, ed è per questo che bisognerebbe chiamare quel che sta accadendo da Seattle in poi in un altro modo). Non solo Genova ha aperto un varco di cui si sono giovati i "girotondi", anch'essi molto diversi gli uni dagli altri, e la Fiom prima e la Cgil poi, ma i trecentomila di Barcellona mostrano a loro volta che il fenomeno, a quelle dimensioni, non è solo italiano, e che la stessa Europa dell'Euro e delle privatizzazioni, è investita da un'ondata sociale senza precedenti. Piuttosto, un effetto collaterale rilevante del movimento, nonché dell'evoluzione stessa del liberismo, è la crisi terminale della politica di "governo" della globalizzazione che aveva retto l'Ulivo e tutti i centrosinistra d'Occidente, da Clinton a Jospin.
Questa è la differenza tra oggi e il '96, quando Rifondazione uscì dallla maggioranza che sosteneva Prodi. Tant'è vero che Pierluigi Bersani, uno dei più liberisti tra i dirigenti Ds, intervistato dall'Unità sulla proposta di Bertinotti, dice che questa nasce dalla concorrenza che i diessini si sono messi a fare a Rifondazione aprendo rapporti con il movimento. Una lettura grottesca, che però dice come perfino la maggioranza dei Ds abbia compreso come il punto di svolta sia lì, nella nuova insorgenza sociale, che poi ciascuno interpreta secondo la sua cultura.

Ed è questa stessa novità che, come lo stesso Bertinotti ha ripetuto innumerevoli volte, rende realistica, ai suoi occhi, una "rifondazione" fin qui solo agitata come necessità culturale, mentre il partito continuava più o meno a funzionare come un partito comunista classico. Nell'esperienza pratica del movimento antiliberista mondiale, nelle sue proposizioni e capacità di attrazione, nel suo modo di essere e di organizzarsi, i comunisti di Rifondazione hanno visto qualcosa da cui imparare, da elaborare, da trasformare in cambiamento del linguaggio, del funzionamento, dei riferimenti culturali del partito. A partire da una critica dello stalinismo (in tutte le sue forme) fin qui rinviata o sottaciuta.

Che poi questo tentativo riesca, lo dicevamo, non è affatto certo. Ma ci vuole del tempismo, per cercare di cogliere il momento in questo modo. E in tutti i casi non pensiamo giusto dare l'impressione che "Jena", fosse stato un iscritto a Rifondazione, avrebbe votato con quel 40 per cento che, al congresso torinese in cui Bertinotti ha fatto quelle affermazioni sul comunismo, ha votato contro il segretario.