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Viaggio in Italia

di  Justine

La barca scivolava silenziosa sulle acque calme del Brenta, risalendole senza fatica. Era una barca piccola, anonima, specialmente se si pensa che trasportava il giovane conte Hans Axel von Fersen.

Era il 17… e Fersen si era recato in Italia in viaggio di studio. Arrivato a Venezia dal Sud, vi era rimasto per qualche tempo, ospite dei nobili Venier; ma era estate, e le pietre che lastricavano la città lagunare arroventavano l'aria. Fersen aveva dunque deciso di spingersi nell'entroterra assieme a Lars, il suo attendente, per raggiungere i padovani Barbarigo; e aveva deciso di farlo pagando un semplice barcaiolo, per una volta senza doversi preoccupare dell'etichetta o di qualsiasi costrizione. Lars si era debolmente opposto; vedeva incombere dei pericoli, ma il conte di Fersen gli fece puntualmente notare che era lui il padrone e che quindi aveva il potere di decidere cosa fare.

"…vedi Lars" diceva Fersen all'ombra di una piccola tenda montata sulla barca "…non ci può succedere niente. Il fiume è calmo, è una giornata stupenda e altrettanto si può dire del paesaggio. Guarda" disse indicando la riva "una villa."

Tra la vegetazione, si poteva vedere il retro di una grande villa, e, nel silenzio, si sentivano voci lontane.

"Se mi hanno spiegato bene" continuò Fersen "questa dovrebbe essere la villa dei Foscari. Sì, è proprio lei…"

Il barcaiolo, che nel mezzo delle parole svedesi aveva capito solo "Foscari", si intromise:

"Sì, è la villa dei Foscari, la chiamano la Malcontenta… Vòeo che se fermemo, siòr?"

"Non importa" disse Fersen "mi va bene, andare avanti in barca. Per la prima volta ho l'impressione di riposarmi davvero."

Fersen socchiuse gli occhi, appoggiandosi al suo sedile. Il sole stava per raggiungere lo zenit, gli arrossava un po' il volto pallido. C'era pochissimo vento, che muoveva appena le foglie, a tratti le cicale imponevano il loro canto assordante, a tratti si sentiva solo il cinguettio di qualche uccello. Ai margini dello sguardo del giovane conte scorreva il paesaggio, sempre uguale e sempre diverso, che alternava il fitto bosco alle distese piane dei campi coltivati. Il colore biondo del grano punteggiato dal rosso dei papaveri, le infinite tonalità di verde, tutto era abbagliato dalla luce violenta del meriggio. Ma se l'aria della laguna poteva ancora essere ripulita e asciugata dal vento marino, quella della pianura si presentava di una pesantezza soffocante. Era come se il calore diventasse solido e visibile, entrando a fatica nei polmoni e mostrandosi come un velo luccicante sulle cose. Fersen si sentiva levare ogni forza, e non gli dispiaceva. Lentamente, altre ville apparivano e scomparivano, bianche e appiattite dal sole. Villa Priuli. Villa Allegri. Palazzo Querini Moro, Palazzo Mocenigo, Palazzo Gradenigo. Fersen, o il barcaiolo per lui, le riconosceva e ne registrava la presenza.

Fersen stava per assopirsi quando, alla sua destra, vide una villa che non riusciva a identificare. Avvicinandosi la guardò meglio: era un po' più piccola della media, senza imposte, le finestre come buchi neri sulla facciata bianca e scrostata. La vegetazione cresceva disordinata e le statue corrose, che guardavano il Brenta, si riflettevano nel fiume come fantasmi.

"Che villa è questa?" chiese Fersen al barcaiolo, che si strinse nelle spalle.

"La jera dei nobili Caliari, ma non l'ho mai vista abitata."

"Voglio fermarmi qui…"

Il barcaiolo, e Lars con lui, si voltò incredulo a guardare Fersen.

"Xeo sicuro? E' tutta cadente… Non c'è niente da vedere."

"Eh!" gli fece eco Lars, ma Fersen non volle sentire ragioni.

"Fino a prova contraria, sono io che pago e quindi io che decido. Ci potete lasciare qua e tornare a casa, buon uomo. Noi ci arrangeremo."

"Se el siòr xe contento cussì…" borbottò il barcaiolo dirigendosi verso il vecchio approdo. Lars aveva un'espressione affranta, ma non osava più protestare.

Poi, furono soli davanti alla mole bianca della villa. Da vicino acquistava imponenza e ci si accorgeva che, insieme alla vegetazione selvatica, crescevano palme e piante che i due svedesi, nel loro viaggio, avevano visto solo al Sud, evidenti residui di un giardino di gusto eclettico.

"Sembra uscita da un quadro" mormorò Fersen mentre avanzava verso l'entrata: anche la porta era sparita. Quel luogo lo attraeva irresistibilmente, e non sapeva perché; forse perché era talmente irreale che sembrava uscito da un sogno, anche se non da un sogno esattamente bello. L'esplosione dell'estate, il sole all'apice del suo corso, che avrebbero dovuto suggerire un'impressione di vita, non facevano che accentuare la decadenza della vecchia villa. Un senso di soffocamento, di morte, sembrava avvolgere ogni cosa, tutto sembrava teso a testimoniare gli effetti inesorabili del tempo.

Entrando nella penombra, per lunghi attimi Fersen ebbe l'impressione di essere cieco. Quando i suoi occhi si abituarono alla semioscurità, si trovò in un grande atrio collegato alle due ali laterali.

"almeno qui fa fresco" commentò Lars guardandosi intorno. Grandi affreschi manieristi decoravano le pareti. Rappresentavano per lo più temi mitologici e sembravano di discreta fattura. Fersen ne toccò uno e subito ritrasse la mano perché l'intonaco si sfaldò sotto alle sue dita. Notò le crepe nei muri, e la muffa, il muschio, le macchie di umidità. C'era ancora qualche mobile, ma tutto sembrava sulla via del più completo sfacelo. Il giovane conte si ricordò che le forze gli mancavano, tornò la spossatezza che già l'aveva preso sulla barca. Vide un piccolo sofà che faceva al caso suo.

"Io mi stendo un po' qui" disse a Lars "guarda, là c'è un divano anche per te, se vuoi."

"No, grazie" rispose l'altro "al massimo andrò a stendermi all'ombra di un albero. Non mi piace molto questa casa."

"E' bellissima, invece" disse Fersen stendendosi, con un braccio sopra agli occhi. Più che addormentarsi, perse i sensi, svuotato di ogni energia, piombando in un sonno sudaticcio e in qualche modo innaturale.

Quando si svegliò, non fu in grado di giudicare quanto tempo avesse dormito. Il panorama sembrava invariato, eccetto per

-per un particolare

Alzò lentamente la testa, e la vide. Era una donna molto bella, in piedi davanti a una finestra. Non doveva avere nemmeno trent'anni, e portava un vestito elegante, a cui però erano state visibilmente scucite le maniche, cosicché le braccia rimanevano scoperte. La donna si voltò verso di Fersen mentre lui si alzava in piedi e le diceva, inchinandosi.

"I miei omaggi, signora."

"Siete tedesco?"

Fersen rimase un po' interdetto dalla risposta della donna, brusca eppure pronunciata con tono soave.

"N-no… vengo dalla Svezia… sono il conte Hans Axel von Fersen."

"Allora, non siete tedesco."

"Ehm, no."

Il modo in cui la donna lo fissava era inquietante. Fersen, nonostante la giovane età, era abituato ad avere su di sé gli sguardi delle donne. Le dame lo osservavano crescere e ridacchiavano tra loro:

"Ma che bel ragazzino. Promette delizie."

Ma quella donna lo guardava in un altro modo e non gli diceva niente di simile, anzi, sembrava seguire un percorso tutto suo.

"I musicisti tedeschi sono i migliori, assieme agli italiani; questo è risaputo. Cantare una messa di Bach per me è sublime."

"Voi… cantate?"

"Sì, lei canta" disse una voce alle spalle di Fersen. Il giovane si girò di scatto. Era un uomo, che invece la trentina doveva averla passata da un pezzo. Anche lui indossava degli abiti eleganti, ma a guardarli bene erano consunti, in certe parti addirittura strappati. I capelli, sciolti e un po' radi, gli ricadevano sulle spalle in ciocche unte.

"Agostino Caliari, signore di questa villa" disse l'uomo inchinandosi, e Fersen rispose:

"…Conte Hans Axel von Fersen…"

Caliari si avvicinò sorridendo, con un passo un po' dondolante; oltrepassò Fersen e si mise di fianco alla donna, dicendole.

"Angelina, non ti sei presentata."

Angelina accennò una riverenza.

"Mia moglie è stata una grande cantante, sapete, conte? Un vero usignolo. Una soprano naturale. Niente maestri di canto o insegnanti di musica: tutto qui" disse Caliari cingendo le spalle di Angelina, poi sorrise o meglio ghignò all'indirizzo di Fersen e sventolò una mano davanti agli occhi della moglie.

L'espressione della donna non mutò; non un battito di ciglia. Invece sul volto di Fersen non poté che aumentare lo stupore

"…"

è cieca

Senza che Fersen dicesse nulla, Caliari annuì in segno di conferma. Il giovane svedese cominciò a pensare che forse Lars aveva ragione, qualcosa non tornava, e una sensazione di disagio si era impadronita di lui.

"Seguiteci" gli disse l'uomo prendendo la mano di Angelina "vi farò vedere, o meglio sentire, cosa è capace di fare la mia dolce metà."

Come poteva opporsi? Fersen seguì la coppia in una sala attigua dove l'unico oggetto rimasto era un clavicembalo. Caliari si sedette davanti allo strumento e suonò una musica triste, mentre Angelina cantava:

"Lascia più di tormentarmi/rimembranza del mio ben…"

Il pezzo era molto bello, ben suonato e ottimamente cantato, ma Fersen non poté fare a meno di notare quanto grottesca fosse quella scena. Nobili vestiti di stracci, in un palazzo che si stava sbriciolando attorno a loro.

Caliari smise di suonare e si rivolse di nuovo a Fersen.

"Allora conte! Che ne dite?"

"Meraviglioso!" disse Fersen accennando un applauso. L'uomo sorrise.

"Scusate se non vi offro nulla ma, come vedete, non è che ci sia molto… Però permettetemi di farvi compagnia per un poco. Qui non viene mai nessuno."

 

Lars, maledetto, dove sei?

"Va… va bene..." rispose Fersen. Ancora una volta non poteva opporsi.

"Vi mostrerò il giardino" disse Caliari precedendolo all'uscita. Angelina, invece, era rimasta seduta al clavicembalo, fissando davanti a sé.

"Vi piacciono le rose, conte? Una volta questa villa era famosa per i suoi roseti. Va da sé che, adesso, non sono più curati come una volta…"

Caliari camminava con quella sua strana andatura dondolante. Al sole, si vedeva chiaramente il lucido dei vestiti consumati.

Arrivarono ad un muro con un cancello arrugginito; Caliari lo dovette alzare per aprirlo, ed entrarono nel vecchio roseto.

Rose e erbacce erano cresciute insieme selvaggiamente. In mezzo a loro spuntavano altre statue come quelle sul fiume. Scolpite nel calcare, erano erose dal tempo e dal premere della natura intorno a loro. Certe erano talmente consumate che non si distinguevano quasi più i lineamenti del volto quali, dove erano rimasti, si rivelavano fissi, astratti.

"Ma fa caldo per le rose" considerò Caliari. Infatti i fiori stavano appassendo, i petali, aperti e macchiati, erano gonfi e slabbrati e colonie di formiche vi banchettavano. Anche se erano all'aperto, Fersen si sentì soffocare da quel muro alto, dall'odore di marcio, dall'afa, dalla presenza di Caliari, che cogliendo una rosa ancora relativamente intatta aveva ricominciato a parlare:

"Qui una volta eravamo ricchi, molto ricchi. Agostino Caliari da bambino ha visto balli feste pranzi a non finire. Troppi. Poi, la rovina. Certe volte, sapete, penso di essermeli inventati, i fasti del passato, da quanto lontani sono. L'unica cosa che mi resta è la consapevolezza che tutto è destinato a marcire. Questa rosa ieri era bella, oggi è un po' fiacca, domani i vermi se la mangeranno. Nulla sfugge a questa legge, nemmeno le case, nemmeno gli uomini. Questa stessa repubblica non è che l'ombra di ciò che era quando questa casa è stata costruita. Cos'è questo mare su cui si affaccia? Una pozzanghera melmosa. Tutto si spegne, quindi anche le nazioni. La pretesa dell'eternità è un peccato di presunzione. Credete in Dio, conte?"

"S-sì" rispose Fersen. Si sentiva prendere dalla nausea.

"E avete visto altri posti, qui in Italia?"

"Sì… Napoli, Roma… Firenze…Siena, Bologna…"

"Un grand tour in piena regola" approvò Caliari "suppongo che andrete a ovest, ora. Ma avete viaggiato abbastanza per sapere di che parlo… avete visto la povera gente, qui, quanto crede in Dio? Le processioni dei contadini? E quella che tutti fanno, a cui tutti vanno, è la Via Crucis, dove perfino Dio conosce la sofferenza e la decadenza del corpo."

Fersen si sentì quasi mancare. Il sole gli batteva in testa, stordendolo. Barcollò.

"Non mi sento molto bene."

Caliari rimase calmo, sempre sorridendo col suo sorriso inquietante.

"Allora è meglio rientrare. Andatevi a stendere."

Come un automa, preso da una sorta di febbre, Fersen si trascinò di nuovo dentro alla villa e si ridistese sul sofà.

"Chiudete gli occhi e state tranquillo" gli disse Caliari "avete scelto il momento sbagliato, per venire qua. L'estate veneta è tra le peggiori d'Italia. E' umida e senza vento. Piena di funerali."

Queste furono le ultime parole che Fersen udì prima che Caliari venisse inghiottito dall'oscurità insieme al resto del mondo.

Quando il giovane svedese si svegliò, il sole stava tramontando, e la prima cosa che vide fu la faccia di Lars chino su di lui.

"Conte! Scusate se ve lo dico, ma si è fatto tardi. Un contadino mi ha detto che c'è un paese poco lontano… dormiamo in una locanda, poi domani si potrebbe arrivare fino a Padova, no?"

Fersen si mise a sedere massaggiandosi la testa, che gli doleva.

"Uh… Lars, che fine avevi fatto?"

"Beh, ho schiacciato un pisolino sotto a quel salice, poi ho fatto un giro fino alla strada e lì ho trovato il contadino. Ci porterà in paese col suo carro."

"Va bene, andiamo" disse Fersen avviandosi all'uscita.

Era il tardo crepuscolo quando arrivarono al paese. Mentre si preparavano per andare a dormire, Fersen chiese a Lars:

"Senti… per caso hai visto Agostino Caliari, alla villa?"

"Chi?"

"Oppure una donna cieca, molto bella."

"Me la ricorderei. Chi sarebbe, questa gente?"

"I padroni della villa."

Lars sorrise, sforzandosi di non sembrare irrispettoso.

"Perdonatemi, ma secondo me avete sognato tutto e non vi siete mai mosso da quel sofà impolverato. Il contadino diceva che quella villa è disabitata da moltissimi anni."

"Sì, può darsi che abbia sognato."

Quella notte Fersen si svegliò diverse volte, e quando tentava di riaddormentarsi gli riappariva l'immagine di villa Caliari e delle sue finestre nere, come occhi ciechi e vuoti, come bocche aperte sul nulla.

Il giorno dopo comprarono due cavalli e decisero di arrivare a Padova via terra. Procedevano lentamente, per questo erano partiti presto, anche per avere le ultime ore di fresco. Ma quando il sole era di nuovo alto, si ritrovarono in un altro paese. Un corteo funebre attraversava la via principale, come un serpente silenzioso e nero.

Fersen e Lars osservavano in disparte, da dietro l'angolo di una casa. Fersen sentì ancora uno stordimento misto a nausea e a un terrore sottile. Non capiva, non vedeva i volti di quelle figure in nero. Non erano molte ma erano esasperantemente lente.

Un bambino attraversava la stradina alle loro spalle; Lars se ne accorse e lo fermò.

"Bambino, dimmi una cosa, chi è morto?"

Il bambino, biondo e abbronzato, si strinse nelle spalle.

"Un tedesco" disse, e sparì dietro a una casa.

"Lars" disse Fersen con voce strozzata "sto male".

"C'è una locanda anche al di là della strada, volete entrare a rinfrescarvi?"

"No, la cosa migliore è ripartire, e arrivare a Padova prima possibile."

Arrivarono a Padova alla luce della sera, e furono accolti dai Barbarigo con grande sollecitudine, mentre la città andava tranquillamente a riposarsi e una brezza leggera si levava.

"Tutto è destinato a marcire."

Fersen, affacciato al terrazzo, ripeté a mezza voce le parole di Agostino Caliari. Chi era? Un sogno? Un fantasma? Un pazzo? Forse davvero la prima ipotesi era quella giusta. I ricordi del giorno prima già sfumavano esattamente come i sogni al momento del risveglio.

Hans Axel von Fersen accarezzò la balaustra di solida pietra su cui era appoggiato, osservando la luna, che disegnava i profili dei tetti della città. La luce bianca e l'aria fresca. Le piazze larghe e l'idea che la mattina dopo si sarebbero riempite di gente vociante e viva. Si rincuorò; poteva dormire tranquillo.

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