Dal nostro mare, lo Jonio, giungendo da oriente, vennero i Greci verso il sesto
secolo a. C. e fondarono prosperose colonie sulle coste della Sicilia e della
Calabria, mescolandosi alle popolazioni locali dei Siculi, dei Bruzi
e degli Italioti.
Portavano con sé l'arte, la cultura, la grandezza dell'Ellade, e le fertili ma
incolte e barbare regioni fiorirono di una grande civiltà: era la Magna Grecia,
che ad un tratto si trovò ad essere più grande, più ricca e potente della
patria d'origine.
Ma,
nel 210 a.C. le colonie greche caddero sotto i Romani e divennero a tutti
gli effetti province di quel grande impero che allora dominava il mondo.
Sulla costa
jonica, tra le città greche di
Caulonia e Locri, di cui restano imponenti
rovine non ancora del tutto riportate
alla
luce, sorse Mystia nella valle del torrente
Torbido, che in quel tempo era in parte
navigabile
e offriva un sicuro porto interno per le
piccole navi dei commercianti greci, fenici
e africani.
Ed ecco che all'antica civiltà greca si sovrappose
quella romana.
Restano di quell'epoca imponenti
testimonianze tra cui il Teatro, ancora oggi utilizzato per importantissime
manifestazioni culturali e il "Naniglio"
che sorge in una zona anticamente
chiamata "Li Bagni".
Nel 986 d.C. l'antica Mystia fu distrutta
dalle selvagge orde saracene che, come
un
turbine, si abbatterono sulle coste depredandole
e saccheggiandole con continue scorrerie.
I pochissimi superstiti fuggirono verso l'interno
e,
a circa un miglio dalla vecchia città,
su
uno sperone roccioso inaccessibile - e che
perciò meglio si prestata alla difesa -
fondarono Mocta Geoliosa.
Furono
costruite torri di avvistamento e
difesa che dal mare, ad appena un miglio
di distanza una dall'altra (e non sei, come
risulta per le altre torri sulla costa calabra),
salendo verso Gioiosa, permettevano di segnalare
per tempo l'arrivo del temuto nemico.
Diceva un verso di un antico canto:
"Allarmi! Allarmi! Li campani sònanu,
li turchi so' arrivati alla marina".
Sul nome di Gioiosa gli storici non si trovarono
mai d'accordo, ma l'etimologia più probabile
della parola pare sia quella che deriva dal
greco "Ghe = terra", "Eliose = solatia".
Dunque "Geliosa" o "Geoliosa" =
"terra solatia", "città del sole".
Ma la gente del posto tramanda di padre
in
figlio l' antica leggenda di una ragazza bellissima che, andando di notte
al primo appuntamento con un pastore del
luogo che da anni la corteggiava, cadde
dalla
rupe e si sfracellò.
La fanciulla si chiamava
Giojosa ed il
nome
rimase alla località dove ora sorge la città di GIOIOSA JONICA.
Per chi arriva dalla Marina, lungo la vecchia
statale che collega, attraverso il passo
della Limina, la costa jonica con la costa
tirrenica, è un susseguirsi di coltivazioni,
dove, al verde cupo degli agrumeti, si alterna
il verde argenteo degli ulivi.
L'attuale cittadina, lambita dal torrente
Torbido, si allarga a ventaglio tra
ridenti
colline punteggiate da vecchie case
coloniche, verdeggianti distese di agrumeti e antiche ville di signorotti locali,
che
ancor oggi ostentano la loro superbia
tra
secolari vigneti e moderne superstrade.
Lasciando
la statale e proseguendo verso il centro, cinto da una cornice di ulivi
come da un grande abbraccio paterno, il paese ci viene incontro, pigro e
sonnolento, a raccontarci della sua vita tra storia e leggenda.
L'ulivo, albero sacro agli dei, simbolo universale di
pace che sfida i secoli e che forse gli antichi greci iniziarono a coltivare in
queste terre, è presente ovunque nelle nostre campagne, curato con amore e
competenza dai contadini del luogo.
Pane e olio, pane e olive, hanno sfamato
e nutrito, assieme a qualche verdura, intere
generazioni di gioiosani.
Se hai un po' di tempo, vorrei accompagnarti
per le vie del paese a scoprire la magia
della "mia" vecchia Gioiosa. Di quella Gioiosa che il pittore e scrittore
Edward Lear
nel suo "Diario di un viaggio a piedi" (18-19 agosto 1847), così definì:
"Noi
non abbiamo città al nostro paese
così bellamente situate come Gioiosa".
Entrando
in paese, la prima a venirci incontro è la chiesa sussidiaria
sacramentale del Rosario,
affidata, nel 1593, ai padri Francescani Minori e, dal 1962, sede del
beneficio parrocchiale di S. Nicola di Bari.
Di notevole interesse artistico è la statua lignea, spagnoleggiante,
della Madonna del Rosario, vestita con abiti di seta trapuntati d'oro, su
cui scendono a cascata i lunghissimi boccoli che le incorniciano il volto
di bambola.
Salendo dal corso principale incontriamo
il palazzo municipale, ricavato da un ex
convento dei frati Minori Osservanti detti
anche "Padri Zoccolanti", fondato
nel 1500.
Proseguendo la salita che conduce al vecchio borgo, a
cento metri dall'imbocco di via Cavour (interamente pavimentato in pietra
vulcanica), imponente e maestosa, ci appare la facciata della blasonata chiesa
dell'Addolorata.
Lasciandoci trasportare dal fascino travolgente
che trasuda dalle vecchie mura del paese, imbocchiamo
la salita che conduce al rione San Rocco per imbatterci nella mole gigantesca di alcune
case gentilizie.
Al termine dell'erta ci viene incontro il sontuoso
palazzo degli Amaduri dentro il quale è gelosamente custodito un
prezioso dipinto del Mattia Preti, raffigurante la suggestiva scena
della Regina Tomiri mentre affonda la testa di Ciro in un otre.
Osserviamo
estasiati l'imponente facciata del blasonato palazzo che nel lontano 1847, per
una notte, ospitò i famosi Cinque Martiri di Gerace e, senza accorgerci, ci
si ritrova avvolti dal magico alone di religiosità che si sprigiona dalla "casa" più amata dai
gioiosani:
la chiesa di
San Rocco, protettore
del paese.
Percorrendo
la "Menza Via" (Via Belcastro) e costeggiando il palazzo
baronale dei Macrì, che sembra cedere
sotto l'incalzare degli anni, giungiamo all'antico
borgo medioevale, sui cui domina la massiccia
mole del castello.
ruderi.htm
Il promontorio roccioso su cui si erge il
maniero, assieme ad una manciata di
case
abbandonate, anticamente era protetto
da
mura inespugnabili e chiuso da due
porte:
-
la prima, "Porta Barletta" o "Porta Spina" (oggi scomparsa), che con una scalinata
si riversa nel cuore del paese e muore
alle
spalle della fontana Ferdinando I di Borbone.
- l'altra, la "Porta Falsa", scendendo al torrente Gallizzi, risale
verso la "Chjusa".
E poi su, verso l'antico borgo, abbarbicato
alla rupe, tra scalinate e stradine silenziose
su cui si affacciano antichi portali.
Vicoli strettissimi dove ancora pulsa, nascosta
dietro persiane chiuse, la vita di sempre,
con gli odori, le voci, il lavoro silenzioso
della gente, del popolo.
Qui le strade hanno una storia, le
case,
le finestre, i balconi fioriti raccontano
la vita del popolo, le gioie e le sofferenze,
il lavoro e la miseria, la vita e la
morte;
raccontano di quando la vita era fatta
di
piccole cose, ma di cose vere, quando
la
storia di uno era la storia di tutti,
quando
il tempo era scandito dal sole e dagli
astri.
I vicoli silenziosi e deserti, le luci
e
le ombre, le scalinate e gli archi
creano
sensazioni sempre nuove e palpitanti.
Camminando per le viuzze non è strano incontrare
qualche donna, incanutita e segnata dal tempo,
che ci propone uno scorcio di vita passata;
allorquando, nei rari momenti di pausa, sedute
sull'uscio di casa, si raccontavano gioie,
dolori, miserie, sogni e speranze.
Ma lasciamo ai sogni del passato le antiche
glorie del paese e saliamo sul piazzale
della
Chiesa Matrice.
Da qui lo sguardo domina
i tetti delle case, addossate una all'altra
come un gregge di pecore; case che
nascono
dalla pietra e con essa spesso si confondono
per la stessa struttura e colore.
Abbandonando la Matrice e scendendo
lungo la rocciosa scalinata di "Barletta", ci vengono incontro altri scorci
suggestivi, creati dalla poesia della pietra,
portali bugnati di case gentilizie e poi
ancora vicoli, case, silenzi.
La scalinata termina alle spalle delle
Fontane
di Ferdinando I di Borbone, che ancora oggi,
come cita l'epigrafe latina posta sul frontale,
forniscono al paese le acque sorgive dei
monti prospicienti.
La monumentale fontana fa da sfondo al sontuoso
palco di ghisa, in stile liberty, sito
al
centro di Piazza Plebiscito, dove,
ancor
oggi, nei giorni di festa, si ascoltano
concerti
di bande locali e nazionali.
Ma per i giovani di un tempo la fontana era
anche luogo di incontro sentimentale con
la propria amata.
E non ci si deve stupire se
il corteggiamento spesso avveniva tra ripetuti
viaggi della ragazza per riempire la brocca
(cortàra).
Occhiate di intesa, ammiccamenti e ambasciate. Il tutto in una cornice di gelosie, litigi,
segreti, desideri, amori che iniziavano o
che finivano e che il più delle volte conducevano
all'altare.
Ci siamo nuovamente tuffati nel centro del
paese.
Dall'altro lato della piazza, si erge la
chiesa di Santa Caterina,
anticamente patrona
di Motta Gioiosa. La chiesa, costruita nel '500
ed eletta parrocchia nel 1613, crollò in
seguito al terremoto del 5 febbraio 1783
e venne ricostruita per interessamento del
parroco Giuseppe Maria Pellicano.
Il nostro girovagare per la vecchia Gioiosa
termina in Piazza Vittorio Veneto, attuale
cuore della ridente cittadina. Sin dagli
inizi del secolo la piazza ha rappresentato e, ancor oggi, rappresenta il centro nevralgico per gli incontri, gli
scambi, i commerci e le tradizionali passeggiate
dei giovani del luogo.
Ma
il nostro viaggio non termina qui. Se mi concedi ancora qualche minuto, nelle
pagine che seguono vorrei accompagnarti lungo il romantico racconto di un
paese che ha visto nascere e morire le speranze della gente del popolo.
Ti
racconterò della Gioiosa che ha dato i natali a poeti, scrittori, scultori,
patrioti, pittori, artisti. A uomini illustri come gli Amaduri, i
Rodinò, i
Pellicano,
Barletta,
Scarfò, Ajossa, Zarzaca, Agostini, Badolato, Colucci,
Sorbara, Linares,
Lucà,
Macrì, Incorpora,
Murizzi, Rispoli, Commisso, Forcelli, Carnì,
Mantegna,
Mazzone, Mesiti,
Labate, Jerace, Barlaro, Hyeraci, Oppedisano, Attacchi, Panetta, Logozzo, Palermo,
Argirò, Agostino, Zamparelli,
Spina, Teotino, Papandrea e tantissimi altri
nostri benemeriti che, certamente, Gioiosa non potrà mai dimenticare.
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