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     L'ultima domenica d'agosto è festa grande in paese e a Gioiosa fervono i preparativi per onorare degnamente il Santo Patrono. La statua di S. Rocco, estratta dalla nicchia della sua cappella, viene esposta alla venerazione dei fedeli, sotto un apposito baldacchino rivestito di sete multicolori, di fronte al quale arderanno numerosi ceri votivi.
     Per la grande occasione il bordone, il cane, la "borraccia" e la conchiglia originali della statua vengono sostituiti da altrettanti pezzi in argento. Il rito si svolge a porte chiuse, in un'atmosfera di vivo entusiasmo e devozione. Quando tutto è pronto, al suono festoso delle campane, la porta principale della chiesa viene spalancata e la banda, intonando un'allegra marcetta, entra seguita da numerosi fedeli.
     La novena ha inizio.

     Per l'imminente festa le vie vengono addobbate con bandierine di carta colorata e le tradizionali "barche di S. Rocco" vengono sospese tra i balconcini prospicienti dei vari rioni.
     L'usanza trae origine dal fatto che la statua sarebbe stata portata, da     Napoli a Gioiosa, a bordo del veliero S. Luigi.

     Intanto le anziane donne del paese, radunate qua e là per le viuzze (vinèj), si ritrovano per onorare la festa, rispolverando antiche litanie.
     Tra le moltissime che si conoscono, una delle più significative è quella che racchiude i seguenti versi:

...A li sidici d'agustu Santu Roccu trapassau,
e la parma e la curuna
'm paradisu si la levau...

     L'instancabile "Turù", nome d'arte del cavaliere Emilio Argirò, nel suo attrezzatissimo laboratorio nascosto tra le colline, è alle prese con i suoi spettacolari ordigni pirotecnici che, ancora una volta, dovranno sbalordire i cittadini con favolose cascate di luci, botti e colori.

     Sapienti mani allestiscono le luminarie lungo le arterie principali del paese e in piazza viene allestito il palco che dovrà ospitare la banda e i cantanti per la festa imminente.

     Intanto, mentre i "tamburinari" annunciano la festa col frastuono assordante dei loro tamburi,  zampogne e pipìte, accordandosi tra di loro, rispolveravano gli antichi motivi della tradizionale musica popolare.

     La vigilia della festa la chiesa rimane aperta tutta la notte ad ospitare i pellegrini accorsi da ogni parte della Locride e sul piazzale i tamburi sottolineano la veglia col loro incessante rullare, prova generale della colonna sonora che accompagnerà la statua lungo le vie del paese.

     In occasione della sfarzosa festa, in paese sono accorsi ambulanti con le loro bancarelle da ogni parte della regione per offrire i loro prodotti agli innumerevoli pellegrini giunti - nei tempi passati anche a piedi - dai paesi circonvicini.

     Piazza Vittorio Veneto, sin dall'alba, si anima di un incredibile numero di persone che affluiscono da ogni parte della Locride.
     Alle classiche bancarelle si alternano piccoli produttori agricoli della zona che offrono i prodotti del loro lavoro.
     Anche i semplici frutti del bosco e della montagna fanno la loro comparsa e vengono acquistati particolarmente da chi vuole sfuggire dalla monotonia dei surgelati o dai prodotti di allevamento intensivo.
     Polli vivi, olio di casa, uova, origano, olive confezionate, salami caserecci, formaggi, funghi fanno la gioia dei buongustai che di buonora si affollano intorno ad improvvisati banchetti per guardare, contrattare, acquistare.
     Voci roche ed acute di gente che discute, contratta, litiga.
     Un enorme alveare policromo e ronzante dove spesso le speranze dei venditori si scontrano con la realtà contingente del luogo.

     Per destare l'attenzione di grandi e piccini, arrivano i "giganti". Mitiche figure di origine siciliana, Mata e Grifone ('u giganti e 'a gigantìssa), richiamano nella mente della gente l'ormai tramontato senso della maestà, della regalità, della potenza e prepotenza del sovrano nero, questa volta, però, sottomesso ai voleri della regina bianca.

 

 

ORE 9 DELL'ULTIMA DOMENICA D'AGOSTO

     Tra poco il santo uscirà per le vie della città per la più lunga e incredibile processione che si conosca in Italia.
     Questa di San Rocco è una processione ballata, al ritmo frenetico dei tamburi, che inizia alle 9 del mattino e, interrotta solo dalla Santa Messa celebrata nella Chiesa Matrice, si protrae sino alle 20.
       E sono gli stessi giovani di Gioiosa a improvvisarsi "tamburinari" della così detta "banda pilùsa" che accompagna la statua lungo tutto il percorso cittadino alla cadenza ossessionante dei loro strumenti.

     La devozione a San Rocco risale almeno al 1583, anno in cui fu fondata la chiesa a lui dedicata che, più volte ampliata e rimaneggiata, è quella stessa che vediamo ancor oggi.
     Ma è solo in seguito alla peste bubbonica del 1743, regnante Carlo II di Borbone, miracolosamente cessata per intervento del santo protettore degli appestati, che San Rocco fu proclamato, con bolla pontificia, patrono di Gioiosa Jonica.
     L'attuale immagine del santo, una statua lignea, scolpita a Napoli nel 1749, sostituì l'antico dipinto e fu portata a Marina di Gioiosa con il veliero San Luigi. Da qui, come detto, l'usanza di appendere delle barche di carta nei vicoli del paese durante i giorni che preludono alla festa.
     Dicono le cronache del tempo che la commissione che l'aveva ordinata, i nobili, il clero e il popolo tutto fecero gran festa ed in processione, ballando e cantando. 

     Secondo altre fonti, invece, il ballo daccompagnarono la statua fino alla sua chiesa.eriverebbe dalla devozione di un tale che, per avere ricevuto una grazia, si mise a ballare da solo la tarantella davanti al santo in segno di ringraziamento. Il popolo, trascinato dall'esempio del devoto e dall'emozione del momento prese parte, ballando, all'inconsueta manifestazione di fede e di gioia.
     Da allora, ogni anno, in agosto si rinnova, al ritmo ossessionante dei tamburi, la processione ballata di San Rocco, anche se gli anziani rimpiangono i tempi passati, quando il ballo era veramente una manifestazione di fede.

     Quando presentarsi davanti a S. Rocco, strisciando la lingua sul pavimento della chiesa, nascondeva veri e propri drammi umani.
     Quando camminare con corone di spine in testa significava ringraziare il Santo per la liberazione da un male.
     Quando salire alla chiesa trascinando le ginocchia sul selciato voleva sollecitare San Rocco a porre termine ad una inaudita vita di sofferenze.

     Il Santo esce dalla sua chiesa e, percorrendo Via Belcastro, rione Tumba e rione Confrontata, arriva alla Chiesa Matrice dove, dopo un breve sguardo al paese che sotto si distende, entra per la messa e la consueta orazione panegirica.
     E io, approfittando di questa sosta, cercherò di dare qualche cenno biografico sul Santo.

     

     Le notizie su S. Rocco sono scarse e spesso mescolate a pie leggende. Nacque a Montpellier in Francia nel 1345, da una nobile famiglia della Linguadoca, da Giovanni della Croce, governatore della città, e la lombarda Libera Roque.
     Venne in Italia, diretto a Roma in pellegrinaggio, ma giunto ad Acquapendente vi trovò la peste che imperversava e subito si mise ad aiutare gli ammalati, a confortare i moribondi.
     La sua vocazione ad aiutare il prossimo lo portò in varie città d'Italia, per cui, dopo la sua visita alla città eterna, lo ritroviamo a Cesena, a Piacenza e in molti altri luoghi dove infuriava l'immane flagello della pestilenza.
     In Piacenza ne fu contagiato e da allora, con una gamba piagata, si ritirò solo in un romitaggio di frasche che lui stesso si era costruito in un bosco oltre il fiume Trebbia.
E' di allora la leggenda del cane che ogni giorno rubava un pane alla mensa del padrone e correva nel bosco a sfamare San Rocco.
     Guarito tornò in patria, ma, rientrando a Montpellier, nessuno riconobbe nell'uomo macilento e dal passo incerto il figlio dell'ex governatore della città e fu gettato in carcere come spia.

     Dopo quattro anni morì e solo allora fu riconosciuto dai parenti e gli furono tributate onoranze solenni. Fu proclamato santo quando ormai il culto per Rocco da Montpellier si era propagato in tutta l'Europa, durante il Concilio di Costanza del 1414.

     Il panegirico è terminato e la processione, preceduta dalla spettacolare danza collettiva, torna a snodarsi per le rampe scoscese della Confrontata, più numerosa che mai.

     Grazie richieste e grazie ricevute. La processione trascina con sé dolori, speranze, attese, invocazioni.

     Il passaggio del santo per le viuzze del paese dà luogo a scene che non possono essere commentate con poche parole. Bisogna essere presenti per viverle. San Rocco sfila sotto i balconi gremiti di anime che, a braccia protese, è come se lo invitassero a entrare nelle loro abitazioni.
     Vedere il santo passare in quei luoghi che hanno visto le case aprirsi e cadere sotto le vibrazioni del terremoto è come ripassare un capitolo di storia che la nostra generazione non ha mai vissuto, ma che ci appartiene da sempre.
     Lacrime di sofferenza dietro i vetri socchiusi.
     Scene di dolore che non si possono descrivere. Speranze di gente che assalgono San Rocco e... i portatori del santo lo sanno; per questo quando un ammalato si avvicina per fare la sua offerta al Protettore, questi viene calato quasi ad altezza d'uomo per far sì che ci sia un contatto diretto tra santo e fedele.
     Le "parole" non scambiate tra i due... vengono intuite dalla folla che le fa proprie e, commossa, partecipa a questa scena di dolore con un fragoroso applauso.

     Volti scavati dal dolore si stringono attorno a San Rocco che, con la mano protesa ai propri fedeli e gli occhi rivolti al cielo, sembra chiedere a Dio intercessione per loro.
     Riproduzioni in cera di membra guarite, gente a piedi nudi, bambini, spogliati per voto e offerti alla grazia del Santo.
Ed è sempre un momento emozionante quello dell'offerta dei bambini nudi al Protettore; quasi un incruento sacrificio pagano o forse un segno di consacrazione totale per grazia ricevuta.

     Sono scene votive alle quali la gente assiste e partecipa emozionata, turbata, attonita: il bimbo ammalato che sta baciando San Rocco è un figlio di Gioiosa e non solo della mamma che in quel momento, smarrita, piange tra la folla.

     

     E' il tramonto.
     Tamburinari e banda, turisti e curiosi, autorità civili e religiose, fedeli e pellegrini sono confluiti in massa sulla piazzetta della chiesa per stringersi attorno a S. Rocco, quasi a impedirne il rientro.

     Pare impossibile che una tal folla possa essere contenuta in un piazzale così piccolo.
      La gente quasi impazzisce al ritmo sempre più frenetico dei tamburi che fanno vibrare i muri delle vecchie case e i balconi sembrano cedere sotto il peso delle persone protese a salutare colui che per i gioiosani, più che un patrono, è uno di famiglia.

     A riconferma della tradizione secondo cui San Rocco, dopo aver raccolto nelle sue mani la peste, entrando a ritroso in chiesa, se ne liberava, salvando miracolosamente i suoi gioiosani, da allora, ogni anno la statua viene girata prima del rientro.

     Urla, pianti, mani protese in un ultimo saluto, sventolio di fazzoletti, ancora bimbi affidati alla pietà del santo, applausi, ressa. In un crescendo parossistico durante il quale la gente si libera dei veleni accumulati durante l'anno, San Rocco rientra in chiesa.

     Ecco, la statua del santo è rientrata nella sua casa. La gente ritorna stanca alle proprie dimore e Gioiosa riprenderà il suo aspetto malinconico di sempre.

     Un altro anno è passato.
     In un paese come il nostro, dove, nonostante i mali della vita, tutto procede con la tranquillità e la sonnolenza di sempre, San Rocco, con la sua dolcezza, ci ha insegnato, che nemmeno il pianto e la sofferenza sono stati inutili. Che la nostra solitudine, il nostro tormento e la nostra incapacità di accettarci deboli e disperati come siamo, dentro noi si muovono secondo un disegno e una logica ben precisa: il disegno dell'amore che cammina lungo le ombre di un malinconico mondo che scompare e la paura di una vita che ancora dovrà venire.

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