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Dietro le vecchie porte del paese, tra muri che hanno assorbito il fumo dei bracieri, gli odori di cucina o di bucato, abili donne filavano la seta e la lana, altre tessevano, sedute ad antichi telai, altre cucivano realizzando su stoffe povere o preziose impareggiabili ricami destinati alla dote delle ragazze gioiosane.
I contadini erano fuori, nei campi, a sputar l'anima sui terreni dei baroni e gli artigiani, nelle oscure botteghe, dall'alba al tramonto, a creare quegli oggetti di uso quotidiano e quei manufatti che lasciano stupiti anche noi dell'era tecnologica, avvezzi ai computer e alle navette spaziali.



'U  GRAGNARU

La terracotta che per secoli ha fatto capolino nelle case povere e ricche del paese, ha rappresentato, fino a qualche anno fa, un'importante risorsa economica che, assieme all'agricoltura, ha contribuito alla sopravvivenza delle famiglie. 

Erano, e sono ancor oggi, le mani esperte del vasaio a trasformare la creta in "cortare" e "bùmbuli", che mantengono, a distanza di millenni, le antiche fogge greche delle anfore.

L'argilla, trasportata dalla vicina località Santa Tecla, dopo essere stata ammorbidita nell'acqua, viene tagliata in pani (pajuni).
Il tornio, sul cui asse portante gira una ruota di legno, azionata col piede sinistro del gragnaru, è l'unico macchinario che fa capolino nell'umidissimo laboratorio dei mastri vasai del rione Cafia.
Fissato il pajuni di creta perfettamente al centro della ruota del tornio, la macchina si mette in movimento ed entrano in funzione le mani esperte del vasaio che, per mezzo di una spatola di legno, dà forma a quelle cortare che stupiscono per la loro perfezione.
Terminata la fase creativa, il prodotto semilavorato viene lasciato asciugare per un breve periodo, al fine di evitare che possa lesionarsi durante la cottura.
Dopo circa 6 ore di cottura, finalmente 'a 'gragni grezzi (così vengono chiamati i prodotti della creta) sono pronti ad essere esposti e venduti durante il mercato domenicale:
- 'A cortara: brocca con due manici laterali, che conserva le antiche sembianze delle anfore greche 

- 'A bùmbula: piccolo orcio per l'acqua.
- 'A giarra: giara usata per la conservazione delle olive sotto sale.
- 'U giarruni: grande recipiente, destinato alla conserva-zione dell'olio.
- 'A limba: larga scodella dall'interno smaltato.
- 'A grasta: vaso per le piante.

- 'A grasta p'a vucata: grande recipiente dentro cui veniva fatto il bucato rudimentale (cenere e acqua calda). 

- 'A tianeja: tegame che era usato per preparare il sugo o i secondi piatti.
- 'U :pignatu pentola generalmente usata per cuocere i legumi, sfruttando il calore del focolare.
- 'A giarretta: recipiente smaltato, a forma di brocca, con due manici, usato per conservare strutto, ciccioli, "frìttuli", salame sott'olio, ecc.

Chi passa da Cafia, potrà ancora sentire il cigolio sommesso del vecchio tornio che, girando sotto le abili
mani di "Vici Napuli", dà vita a quelle graziose miniature, del tutto simili alle antenate cortare, ormai diventate "souvenirs" per i turisti nostrani.
Ma pian piano il timido brontolio della macchina è stato inghiottito dai motori delle moderne autovetture che, riempiendo di rumore ogni rione del paese, hanno soffocato i respiri della natura, ormai piegata dagli inesorabili colpi della civiltà.
Di un mestiere millenario rimane soltanto il ricordo del vastissimo campionario di "argille" che Domenico Napoli e Domenico Ierinò hanno prodotto con amore e dedizione nel loro piccolo laboratorio, per i gioiosani d'un tempo.

 



'U  GUTTARU

E' il bottaio, erede di un'antica esperienza artigiana, a curvare il legno di castagno e di rovere, con l'aiuto del fuoco e di rudimentali utensili ormai destinati ai musei etnografici.
La fibra di vetro e la plastica non spaventano questa antica categoria di artigiani che continua imperterrita a creare quei recipienti dove il buon vino può invecchiare tranquillo e migliorare con gli anni.
Sebbene la maggior parte del lavoro venga ancora eseguita a mano, anche qui qualche macchina moderna ha fatto la sua comparsa.

Con l'aiuto del fuoco e qualche attrezzo particolare, dalle sue mani nascono, ancora oggi, i grossi contenitori di castagno e di rovere che, a dispetto delle moderne fibre sintetiche, ospiteranno con orgoglio e superbia il buon vino gioiosano. 

Gutti (botti), barij (barili), rivaci (recipienti per il trasporto della sabbia), tinej (tini) e altri contenitori di uso domestico nel passato hanno preso forma dalla sua esperienza e saranno tramandati di generazione in generazione, quasi a testimonianza di una sapiente eredità artigiana che per secoli è stata e sarà motivo di vanto per Gioiosa.




'U  LANDARU

L'antichissimo mestiere del lattoniere aveva il compito di costruire i giarri, grandi recipienti di latta che sostituivano le vecchie giare di terracotta dentro cui si conservavano le scorte d'olio prodotte dalle famiglie. Ma il landaru produceva principalmente i landi, piccoli recipienti a forma di parallelepipedo, che venivano riempiti d'olio nel suo stesso laboratorio e sigillati ermeticamente con un coperchio saldato a stagno. Era l'olio destinato ai parenti emigrati.Oltre alla stagnatura delle caldaie di rame, altri prodotti tipici del landaru erano: le lucerne ad olio (lumeri), gli stampini per i dolci, le teglie per la cottura in forno di focacce, fichi, biscotti (furm'i landa); grondaie (canaletti); imbuti ('mbuti); pentole di rame o zinco (maramitti); oliatori (agghjalori); stacci (sitacci); ecc..



'A  CAPILLARA

La raccoglitrice di capelli girava per le case in cerca di capelli di donna, che comprava per poche lire o scambiava con bicchieri di vetro, piatti, bambole, utensili da cucina.
E quando, per le strade di Gioiosa, di tanto in tanto, si sentiva gridare <'A capillara passa!>, non erano poche le ragazze che apparivano sull'uscio di casa per offrire le ciocche corvine dei loro capelli alla singolare ambulante.

 

'U  MAJOLINARU

     Aveva il compito di castrare i porcellini. L'operazione differiva a seconda del sesso dell'animale.                                                                                                             Alle femmine praticava un taglio di 5 cm circa sul fianco destro e asportava le ovaie (così facendo la carne diventava più soda e il salame da essa ricavato si conservasse più a lungo).                                                                                                   Ai maschi, invece, praticando due tagli nella parte bassa dello scroto, asportava i testicoli (ciò evitava che la carne dell'animale macellato puzzasse di orina e, inoltre, faceva sì che la bestia ingrassasse più facilmente).

 

'U  FEZZARU

Girando per le case del paese, comprava la feccia del vino, che veniva affidata alle esperienze delle clandestine distillerie locali, per la produzione di rudimentali ma genuine grappe casalinghe.
Bastava solamente una semplicissima serpentina e un po' di pazienza... il singolare aroma era assicurato.

 

'U  PEZZARU

Altro girovago che si guadagnava da vivere acquistando, per qualche lira, indumenti vecchi di lana, che, venivano, poi, riciclati dalle primissime industrie tessili del dopoguerra, riproponendoli come prodotti di pura lana vergine...

 

'U  FERRAZZARU

Artigiano che si occupa della produzione di sporti (canestre), panara (panieri), ferrazzi (ceste rettangolari di castagno), còfini (ceste di canna con due manici), zimbili (fiscoli), ventagghj (ventagli), ecc.
I ferrazzari che a Gioiosa hanno portato avanti, con estrema bravura e massima competenza, questo tipo di artigianato fanno capo alle famiglie Nasso e Seminara.

 

'A  JNESTRA

La lavorazione della ginestra è stata, per anni, oggetto di speranza e sudore che gli antichi gioiosani hanno versato tra le selvagge piantagioni della nostra vallata. Rappresentava, sì, una certa fonte di guadagno, ma era un massacrante lavoro cui bisognava dedicare bravura, fatica e pazienza.
La ginestra raccolta veniva messa al sole per sei giorni e poi la si metteva a mollo per altri sei, nell' acqua della hjumara, tenendola imprigionata sotto pesantissimi blocchi di pietra.
Tolta dall'acqua, veniva strofinata più volte tra la ghiaia per spogliarla della corteccia e farla diventare bianca il più possibile.
Portata a casa, la si asciugava esponendola al sole per circa due giorni. Preparata a mazzetti, veniva battuta ripetutamente con la mazzoleja (mazzuola), fino a quando non assumeva le sembianze della stoppa. Al che veniva filata. Sbiancata con acqua calda. Asciugata e... Tessuta al telaio.

 

'U   SEGGIARU

L'impagliatore! Ci sembra di rivederlo ancora seduto davanti agli usci delle varie case del paese, intento a impagliare i fondi delle sedie per mezzo della sala (guda), da lui stesso raccolta nelle località acquitrinose di Gioiosa e sapientemente intrecciata con le sue abili mani.

 

'U  CORDARU

Il funaio: artigiano che, dalla lavorazione della canapa grezza, otteneva delle resistentissime corde che, in larga parte, venivano vendute ai contadini e ai pescatori del luogo.

'U manganeju (enorme ruota di legno), appoggiato al muro di una vecchia casa di Via Campanella, girava continuamente e lui, il maestro, servendosi di "tornj", "pej", "ferretti", "pigni" e murruneja, dava vita alle resistentissime corde che venivano vendute nei mercati del circondario.
Per produrre una corda di appena tre metri di lunghezza occorrevano quasi due ore di lavoro e l'impiego minimo di tre persone: la prima per tenere il ferretto; - la seconda per seguire la pigna; - la terza per girare il manganeju.

 

'U  PEJARU

Altro ambulante che percorreva Gioiosa in lungo e in largo era 'u pejaru (raccoglitore di pelli): instancabile lavoratore che edificava le proprie speranze sulla "pelle" degli altri...
Lasciando una scia di fetore (per via del tipo di merce che portava sulle spalle), di tanto in tanto lo si vedeva vagare per i rioni del paese, in cerca di pelli di animali che acquistava per qualche lira.

 

'U  TINTURI

L'uso indispensabile del telaio manuale, con il quale le donne gioiosane producevano filati e coperte di seta, destinate ad formare la dote delle ragazze del luogo, faceva obbligatoriamente nascere il mestiere del tintore.
Agli inizi del secolo Gioiosa registrava la presenza di ben 12 tintori.

I colori di cui il tintore faceva uso non erano in polvere, ma in granuli, per cui, deposti in un recipiente di rame semiovale e munito di un lungo manico di ferro (bozzu), dovevano essere ridotti in polvere pestandoli per mezzo del pillo (pistun'i lignu).

Molto usata era la granatina (colore estratto dalla melagrana), che veniva impiegata unendola ad altri colori per variarne la tonalità.
Per ottenere il nero, ad esempio, dopo avere immerso il tessuto in un bagno di granatna, si versava un particolare additivo, detto "legno campeggio" e poi una dose adeguata di vetriolo (vitrolu).
La preparazione dell'indaco di Bengala (importato in zolle dall'Africa) avveniva mediante il filtraggio del colore con l'aggiunta di additivi speciali e tenendo il preparato a mollo per 24 ore. Ne scaturiva un colore che a prima vista faceva pensare al verde, in effetti, però, si trattava di una tonalità di blue (blue indaco) abbastanza resistente nel tempo: era quello il colore che conferiva dei meravigliosi toni cangianti alla saja (costume tradizionale) indossata dalla maddamma.
Facendo uso di grosse caldaie di rame, dentro cui il tessuto di seta o cotone bolliva al fuoco lento della legna, la tinta veniva data a più riprese. Generalmente, per arrivare ad ottenere, la tonalità di colore desiderata, l'operazione si protraeva anche per una settimana e forse più.
Speciale attenzione veniva rivolta alla saja, per la colorazione della quale bisognava prima 'nzarvarla (togliere cioè le sostanze gelatinose della seta, tenendola a mollo per 24 ore in una particolare soluzione chimica acquosa) e poi veniva tinta a strisce di 60 cm. circa (così come usciva dal telaio).
Per la stiratura veniva usato uno speciale metodo che conferiva ai tessuti (specie a quelli di seta) una particolare lucentezza, grazie alle gocce d'acqua che venivano spruzzate durante la stiratura stessa.
Un cilindro avvolgeva per due giorni il tessuto di seta, facendo sì che esso rimanesse rigido come un foglio di cartoncino.
Non erano rari i casi in cui il tintore si occupava anche della tintura della pelle. Colorazione che prevedeva ben quattro trattamenti diversi.



'U  CAPIZZARU

Artigiano che, oltre alla produzione dei petturali, ritranghi e suttapanza, allestiti quasi esclusivamente per il mastro bastaio, 'u capizzaru si occupava per lo più della produzione di cavezze (capzzi), servendosi di strisce di cuoio (dello spessore di circa 3-4 mm. e della larghezza di 2-3 cm) che lui stesso tagliava col trincetto nel suo angusto laboratorio dotato di pochissimi attrezzi.
Mastu Cicciu Alì è stato l'ultimo artigiano di una lunghissima dinastia di capizzari che Gioiosa ha visto continuamente all'opera durante il lento dipanarsi degli anni.

 



'U  MBASTARU

Artigiano che si occupava esclusivamente della produzione di basti per le bestie da soma. Ripercorrendo con una certa nostalgia "i vinej" della Gioiosa di qualche decennio fa, abbiamo la sensazione di rivedere Mastu Brunu Alì, rinchiuso nel suo piccolo laboratorio, mentre incastra e sagoma a forma di semicerchio il durissimo legno di faggio. Era lui il mastro bastaio più ricercato della vallata!

Dalle sue mani uscivano quei resistentissimi capolavori dell'artigianato locale, che, ancora oggi, a distanza di anni, testimoniano la bravura del maestro, adornando la groppa delle pochissime bestie da soma rimaste.
Ed ecco il maestro al lavoro.
Prima di tutto preparava i due circhj portanti (ossatura del basto), operando due difficilissimi incastri sulle zone curvilinee del legno.
Dopo di che passava alla preparazione del fustu: piccoli mazzetti di paglia legati l'uno all'altro in serie e poi ricoperti con pelle di capra (la stessa usata per confezionare gli otri).
Allestito il fustu, veniva fissato ai circhj per mezzo di spago o corda sottile (sciavula) passante attraverso i dieci fori praticati in ciascun cerchio di legno.
Sulle facce laterali dei due circhj veniva, poi, inchiodato 'u mazzolu, corda di paglia strettamente legata con un filo di sala (guda).
A questo punto, da un mazzolu all'altro veniva fissata una robustissima tela per imballaggi che, a mo' di materasso, veniva riempita di paglia, per evitare che la parte legnosa del basto fosse in diretto contatto con la groppa dell'asino.
Ultimo ritocco era quello che consisteva nel foderare 'u mazzolu con la faccetta (guaina di pelle più o meno pregiata).  L'opera è ultimata.



'U  SELLARU

A differenza del mastro bastaio, le abilissime mani del sellaio si occupavano quasi esclusivamente della produzione e della riparazione delle selle per i cavalli, che, oltre ad essere vendute ai signorotti locali del tempo, molte volte venivano noleggiate.



'U  MPERRA CIUCCI

Pazienza e bravura indiscussa, erano il grande segreto che permetteva al maniscalco di mettere a punto le "ferree calzature" di asini e cavalli.
Con l'aiuto del fuoco e sotto i colpi del martello, il ferro arroventato si arcuava fino a quando non assumeva la forma dello zoccolo dell'animale.

Prima di tutto il maniscalco doveva esaminare la conformazione del piede della bestia e la direzione delle estremità, al fine di poter costruire e applicare il ferro con precisione.

Dopo di che, con martello e tenaglia estraeva la vecchia "ferratura". Ciò avveniva raddrizzando le ribaditure dei chiodi, mediante il coltello, il martello e l'uso della tenaglia.
Levato il ferro, si toglieva la parte più dura e secca dell'unghia con coltello e tenaglia, e poi la si pareggiava con l'incastro o "ròjna". Pareggiato il piede, lo si faceva poggiare a terra per osservare specialmente i quarti" che dovevano necessariamente conservare la stessa altezza.
Si faceva quindi alzare nuovamente il piede e vi si applicava il nuovo ferro, moderatamente caldo, osservando se si adattava bene allo zoccolo della bestia.
Allontanando il ferro, con la ròjna o con la raspa si asportavano le parti bruciate dell'unghia.
Una volta constatato che il ferro si adattava alla perfezione, lo si faceva raffreddare immergendolo nell' acqua.
Col punzone si allargavano le contro-aperture perchè lasciassero passare le lamine dei chiodi (posti).
Dopo di che, veniva riapplicato il ferro per essere fissato definitivamente con i chiodi.
Impiantati i chiodi, si ripiegavano le punte verso il basso della parete dell'unghia per mezzo della tenaglia.
Sempre con l'uso della tenaglia, veniva tagliata la lamina ripiegata di ciascun chiodo e, ribattendo col martello, si costringeva l'estremità tranciata a piegarsi ad angolo e quindi conficcarsi nella parete dello zoccolo.
Le parti sporgenti delle "poste" erano, infine, accuratamente limate e... Una passata di grasso col pennello era il tocco finale che il maniscalco dava al suo capolavoro di "calzoleria equina".



'U  TRAPPITU

Saltando l'intero ciclo lavorativo che va dalla battitura delle olive con la percia (pertica), fino alla bruciatura del nòzzulu (sansa) nelle locali fornaci dei gragnari (vasai), qui daremo soltanto uno sguardo generale ad alcuni termini antichi ricorrenti in materia di "frantoio" e al modo con cui, alla fine, l'olio prodotto veniva misurato (criscri l'ogghju) e ripartito tra i vari soggetti che avevano partecipato alla lavorazione.
Intanto è opportuno tener presente che in ogni frantoio di Gioiosa, ricorreva la consuetudine di appendere ai muri alcune giarretti (piccoli recipienti di creta smaltata non più grandi di una brocca di normali dimensioni) sulla cui "pancia" era affissa l'immagine di un santo.
Queste giarretti, generalmente tante quante erano le chiese del paese, venivano usate per raccogliere l'olio, che a volte, veniva offerto dal padrone delle olive.
Detto questo, citiamo alcuni termini tipici dell'ambiente in cui i trappitari operavano:
- UTRI: Recipiente di pelle animale usato per il trasporto di liquidi (generalmente dell'olio).
- SQUEJA: Grande pietra concava, di forma circolare, dentro cui vengono macinate le olive.
- JUVU: (Giogo) Robusto asse di legno che partiva dal foro della macina e andava a poggiare sul collo dei due buoi. Questi ultimi, girando ripetutamente attorno alla squeja,
mettevano in movimento la pesantissima pietra, cui era affidato il compito di frantumare le olive.
- NOZZULU: (Sansa) Ciò che rimane delle olive dopo l'estrazione dell'olio. Mandato allo stabilimento oleario dei fratelli Alì, da un quintale di nòzzulu, si estraevano, ancora, da 4 a 7 litri d'olio. Ciò che rimaneva della sansa superpressata veniva, infine, destinato alle fornaci paesane, quali, ad esempio, quella dei gragnari.

- DECIMA: Unità di misura corrispondente a circa 1 litro e tre quarti. Ancor oggi, fabbricato in latta, il recipiente, si presenta con la base più stretta rispetto al corpo dello stesso, per agevolare l'immersione del misurino nell'olio ed evitare quindi che esso rimuovesse la feccia giacente nel fondo della giara che lo contiene (ruppr'a mamma).

- VOARU: Si trattava, generalmente di un ragazzo che aveva il preciso incarico di far girare i buoi attorno alla squeja.
- PALERI: Versava le olive da macinare nella squeja e, facendo uso della pala, le trascinava continuamente sotto la macina per essere infrante.
- MURGA: Feccia - Residuo dell'olio.
- MURGARU: Parte del frantoio (in muratura) dove veniva raccolta la feccia dell'olio.
- STIFA: Luogo dove veniva messo l'olio di proprietà del frantoio (era anche il luogo dove mangiavano i trappitari).
- GRASTA: Grande recipiente di terracotta dove venivano messe gli otri per farli scolare dell'olio residuo.
- SPICA: Chioma del "cannizzolu" (piccola canna verde) con la quale si raccoglie l'olio vergine dal tineju (tino).
- ZIMBILI: Fiscoli - Gabbie circolari di giunco o castagno in cui si mettono le olive infrante per sottoporle alla pressatura.
- MULATTERI: Si occupava del trasporto dell'olio prodotto, per mezzo di muli.
- PUNTERI: Era colui al quale era affidato il compito di suddividere in parti proporzionali l'olio.
- CONZU: Specie di pressa rudimentale usata per strizzare i fiscoli.
- ARGANU: Dispositivo a leva girato a spalla per azionare la pressa.
- ZZIMBUNI: Luogo del frantoio dove si depositano le olive da "macinare".
- MACINA: Grande ruota di pietra che serve a infrangere le olive. Ma il termine era ed è anche usato per indicare la quantità di olive che il torchio può premere in una volta.

A parte le giarretti dei santi, tre erano i soggetti che partecipavano alla suddivisione dell'olio prodotto: il padrone delle olive, i trappitari e il voàru.
La spartizione dell'olio, misurato con la "decima" (1 litro e 3/4), avveniva nel seguente modo:
- prima di tutto si vedeva se il padrone delle olive voleva donare qualche bicchiere al suo santo preferito;
- poi si prendeva un misurino di quasi mezzo litro e lo si donava al voaru;
- dopo di che si procedeva col vero e proprio cuntu d'ogghju, che, come già detto, era affidato al punteri.

Il più delle volte, la suddivisione avveniva abbinando ad ogni "decima" contata il nome di un santo. Ne scaturiva un singolare spettacolo (una via di mezzo tra lavoro e preghiera) che il punteri dava in tale circostanza.
Ecco le battute più salienti del copione:

- La gran Matri di Ddiu nostru Signuri
- E unu. (Riempiva la prima "decima" e la metteva nell'otre del padrone delle olive)
- La 'Mmaculata Cuncezioni.
- E ddu'. (La seconda decima ancora al padrone delle olive)

- Pe Santu Roccu nostru protetturi.
- E tri. (Sempre al padrone delle olive)
.............................................
.............................................
- E ddeci. " "
- E undici. " "
- E pur'undici " "

A questo punto, la "misura" (la dodicesima, per la precisione) andava ai trappitari.
E poi daccapo, cominciando, però, dal voaru e non dai santi che, questa volta, erano esclusi dalla conta...

 

'U  TILARU

Rudimentale "macchina" usata per tessere, lenzuola, coperte, tappeti, ecc., si componeva di una intelaiatura di legno i cui assi portanti (stimigni) erano posti verticalmente e trasversalmente.
Completamente costruito in legno, 'u tilaru, oltre che una magra fonte di guadagno per le donne dell'epoca, rappresentava pure l'unico modo possibile per tessere la dote delle fanciulle gioiosane.

Due erano i tipi di telai esistenti a Gioiosa: quello normale o a quattro stimgni (due oblique e due verticali) e quello 'ncasciatu o a stimigni orizzontali (molto più robusto del primo).
Addette alla preparazione dell'ordito erano i masti 'i tilaru (tessitrici al telaio), le uniche che riuscivano a programmare quei grovigli di fili e legacci, adesso sostituiti completamente dall'elettronica dei moderni computer. Una spola correva tra i fili dell'ordito e dietro i battiti ritmici della cassa la tela cresceva a vista d'occhio.
Accanto al telaio vi era l'arcolaio (nimuleju): strumento destinato al riavvolgimento del filato in matasse.
Accostato all'arcolaio vi era 'u manganeju, che raccoglieva il filo nelle cannej (spole).
Completava l'attrezzatura del piccolo laboratorio, 'u matassaru (aspo), che serviva a raccogliere le matasse.
Ormai sono rarissime le donne che ancora sappiano programmare queste strane macchine fatte di legni in movimento e fili intrecciati.

 

'U  FORGIARU

Facendo uso dell'incudine, del martello, del fuoco e di qualche semplicissimo attrezzo, il pesante lavoro del fabbro, per anni e anni, ha saputo offrire al paese gli innumerevoli utensili, usati nelle case, nelle campagne, ovunque. 

A Gioiosa il mestiere del fabbro, dalle mani dei grandi mastri forgiari, è passato a quelle, precise e competenti, del signor Rocco Scali: unico artigiano rimasto nel suo laboratorio a sfidare la fatica e lottare contro le minacce incalzanti delle industrie concorrenti.

  Moltissimi sono gli utensili e i piccoli attrezzi prodotti con garbo e precisione dal signor Scali:

 - Tripodi: treppiedi.

 -  Spitu: spiedo.

Serretta p'o ciucciu: ferro dentato che, azionato dalla fune (che il padrone tirava per guidare l'asino), premeva sotto il muso della bestia e la costringeva a camminare senza opporre resistenza.  

Paletti: palette. 

Trìspidi: cavalletti di ferro su cui poggiano le tavole del letto.

Asciucapanni: gabbia rotonda di ferro che, posta sopra il braciere, serve ad asciugare la biancheria.  

Farcgghju: falce.

Cavacucchjara: specie di coltello a forma d'anello per sagomare i cucchiai di legno  -  Menzu diprunu: ganghero, anelletto, cerniera della porta  

Diprunu sanu: doppio ganghero.

Ganciu: gancio che serviva a serrare un coperchio di una cassa o una porta di legno  

Brigghjozzu:dispositivo di ferro che veniva in filato nella bocca dell'asino per renderlo più mansueto;

- Fusuferru: (vedi foto in alto) incannatoio = specie di volano sul cui asse venivano infilate le spole per avvolgervi il filo di seta, lana o cotone per il telaio; ecc..

 

I  SPARI

      Nel suo immenso laboratorio situato ai piedi del Pantaleo, il cavaliere Argirò, in arte Turù, per anni è stato continuamente immerso tra polveri, micce, spago, colla, strisce di carta e tubi metallici usati per lanciare in aria i piccoli e grandi ordigni che egli stesso prepara continuamente per le feste paesane.
   La sua voce paterna e le sue mani sapienti ci hanno accompagnato per qualche minuto in un fantastico mondo di luci, botti e colori; un "viaggio pirotecnico" durante il quale il "cavaliere" ci ha raccontato lampi e rumori notturni di una delle più insolite e pericolose arti che ha dato molto vanto al nostro paese.
Alla fine il bravissimo artigiano ha confezionato per noi una "granata da finale": ordigno della grossezza di una bottiglia da litro.
La polvere di lancio, racchiusa in pacchettini di carta viene sistemata alla base della "granata", composta di 6 colpi detonanti e 10 granatine colorate.
Arrotolando il tutto in un foglio di carta, nella parte superiore vengono inserite 5 micce comunicanti con la polvere di lancio (ne basterebbe 2, ma per sicurezza è meglio abbondare, dice il signor Argirò).
A questo punto viene innestato uno stoppino situato all'interno di un passafocu della lunghezza di circa mezzo metro.

La "granata da finale" è pronta.
Basta soltanto inserirla in un tubo metallico, accendere la miccia e... il cielo si riempirà di colori, scintille e boati che faranno vibrare i vetri e i muri di ogni casa del paese, per la gioia dei molti appassionati di fuochi d'artificio.

 

I  CARCINALI

Grandi vasche in muratura, ubicate in località Santu Rafeli, dentro le quali venivano trattate le pelli di vacca per la produzione del cuoio ruvido (corami).
Le pelli, immerse in un bagno di acqua e calce per circa una settimana, venivano poi tolte e raschiate con un grosso "coltello a mezzaluna" per liberarle dai grassi.
Una volta pulite, venivano immerse in una soluzione di acqua e foglie di mirtillo per conferire loro il classico colore giallognolo del cuoio.
Il corami ottenuto veniva, infine, venduto alle varie categorie di artigiani locali: "sellari" (produttori di selle), capizzari (produttori di cavezze), scarpari (calzolai), ecc..

 

'A  SITA

La coltura del baco da seta a Gioiosa è vecchia quanto vecchia è la storia del paese.
Agli inizi della primavera, l'ovulo o seme del baco (cocciu), avvolto in un morbidissimo panno di lana, veniva custodito nel petto delle massaie (prima forma di incubatrice) per agevolarne la maturazione. Dopo circa dieci giorni dai semi nascevano i piccoli bruchi neri che venivano sistemati in una cesta (ferrazza) e poi nell'ànditu, fatto con 3 o 4 cannizze (graticci di canna) messe a castello e cosparse di foglie di gelso.

Qui, i piccolissimi vermi, mangiavano per sei giorni e poi si addormentavano per altri tre. Quando si risvegliavano cambiavano la pelle e venivano chiamati "zzijía" o "primu".
Questi, a loro volta , mangiavano per sei giorni e si riaddormentavano. Dopo il terzo giorno di sonno si risvegliavano, cambiavano nuovamente la pelle, e venivano detti arteri.

I piccoli arteri mangiavano per sei giorni, ecc. ecc., risvegliandosi, cambiavano la pelle e venivano chiamati tritu.
Dal quarto e ultimo sonno, infine, nasceva casarru, già bruco cicciottelo, che veniva nutrito dandogli da mangiare anche quattro volte al dì e controllandolo a vista d'occhio. Quando ci si accorgeva, infatti, che casarru, camminando sulle foglie di gelso, lasciava dietro di sé un sottile filo di seta, ciò stava a significare che il processo serico aveva avuto successo.
A questo punto nell'ànditu venivano messi mazzetti di bruvera (erica) su cui casarru si arrampicava per tessere il bozzolo (finiceju), formato da un filo di seta lungo circa un chilometro.
Dopo di che i bozzoli venivano raccolti. Quelli più belli si conservavano ancora per otto giorni; periodo durante il quale la "crisalide" (maschio o femmina), dentro racchiusa, bucava l'involucro per venire fuori. Mentre il maschio viveva un pochino più a lungo, la femmina deponeva le uova che portava in grembo e moriva subito.
Erano le uova che servivano per la coltura della prossima annata.
I bozzoli non destinati alla riproduzione venivano, invece, passati alla lavorazione prima che la "crisalide" li bucasse.
Bolliti, i bozzoli, non più di un chilo alla volta, in una caldaia d'acqua a 100 gradi, la seta che magicamente affiorava dopo 2-3 minuti, veniva raccolta per mezzo della cunocchja (rametto di erica attorno al quale la seta si raccoglieva formando un soffice pallone bianco, paragonabile al batuffolo di zucchero filato che prende forma quando viene avvolto attorno bastoncino di legno).
La seta raccolta nella cunocchja, veniva scunocchjata (dipanata) per essere raccolta nel matassaru (aspo) e, finalmente, lavorata.



'U  SAPUN'I  CASA

L'invenzione e la produzione del detersivo per il bucato, che per anni è stato il grande sogno cullato dall'industria chimica, per le donne gioiosane era già da molto tempo una faticosa realtà quotidiana.
La ricetta del sapone era abbastanza semplice, ma molto lavorata.
Per ogni chilo di feccia d'olio (o grassi), venivano impiegati 200 grammi di soda e 4 litri d'acqua.
Di quest'ultima, però, 1/3 veniva versata subito, all' inizio della lavorazione, e la rimanente parte doveva essere aggiunta un po' alla volta.
Il tutto veniva mescolato a fuoco lento, fino a quando la soluzione non giungeva a coagulazione.
Lasciando riposare per qualche giorno e, tagliando poi a pezzi il preparato, il "detersivo" per il bucato quotidiano era bell'e pronto.



I  SCUPI

Altro artigiano ambulante, che offriva le rudimentali scope da lui pazientemente confezionate con la "sarcia", era 'u scuparu (fabbricante e venditore di scope).
La ruvidissima erba palustre, legata a fascio, assumeva la forma di un grosso pennello, il cui manico era costituito da un semplice bastone di legno.
Non si trattava certamente degli attuali capolavori in fibra sintetica propostici dalle moderne industrie, tramite martellanti spot pubblicitari, ma per i tempi cui ci riferiamo, rappresentavano di certo l'indispensabile per la pulizia della casa.



'A  LIRA

Rudimentale, semplice ed originale strumento musicale a corde, di antica origine mediterranea, la lira, anche se da noi è poco usata, presso le comunità grecaniche, nella Calabria meridionale è invece presente in tutti quei territori che nel passato appartennero alla "Magna Grecia".
Qui da noi lo strumento si presenta in forme molto differenziate: da alcuni esemplari di tipo "piriforme", si passa, infatti, ad altri tipi detti "a lancetta".
Anche le misure sono molto variabili e vanno da una lunghezza di 40 cm. a quella di 65 cm.
Le corde (comune filo di nylon, usato dai pescatori), in numero di tre, sono fissate in una specie di "paletta triangolare" i cui bischeri (piruna) sono ad inserimento sagittale posteriore. Anticamente le corde erano ricavate dai nervi (generalmente tendini) degli animali.
Non essendoci il capotasto, manca l'allineamento superiore delle corde; ne deriva che la corda centrale è più lunga delle due laterali.
Non vi è neppure una tastiera, per cui, le corde sono assai alte sul manico; motivo per il quale la tecnica di tastatura avviene lateralmente, con le unghie.
Le corde sono fissate inferiormente alla cassa con una cordiera di cuoio.
L'anima è di canna e di tipo mobile, tenuta fissa dalla pressione del piede destro del ponticello sotto il quale risulta collocata.
Lo strumento è ricavato da un unico blocco di legno d' ulivo o di noce, tagliato diametralmente e lavorato direttamente a mano, mediante semplicissimi attrezzi: coltello, raspa, scalpello, sega, un'ascia per sgrossare il legno e un pezzo di vetro per levigarlo.

Dopo una prima sgrossatura, viene ricavata la cassa, sul bordo della quale (soltanto negli esemplari più pregiati) viene sagomato uno scalino su cui sarà incollata la tavola armonica (timpagnu).
A detta del bravissimo signor Domenico Romeo, uno dei tre soli costruttori e suonatori di lira del nostro paese, l'archetto, ricavato dal legno di noce, è teso da un fascio di circa 150 fili di agave.
Nei tempi passati venivano, invece, impiegati i crini ricavati dalla coda del cavallo (a dire il vero, meno resistenti di quelle ricavate dall'agave).

 

A Gioiosa sono state le abili mani del signor Domenico Romeo, inconsueto artigiano che, dal legno dell'ulivo locale, per lunghi anni ha saputo ricostruisce gli esemplari più belli di questo antico strumento a corde che si chiama "lira calabrese".



APPARATI

Anche qui ci troviamo di fronte a un mestiere che va scomparendo.
Anche se in Calabria sono ormai poche le persone che prestano ancora la loro opera per l'addobbo delle chiese, a Gioiosa, c'è ancora chi, con molta professionalità, si occupa di tale lavoro.
Il vecchio e spettacolare mestiere, dalle mani del signor Francesco Fazzolari, è passato a quelle del signor Annino Murizzi e, ai tempi odierni, è stato affidato alla fervida fantasia dei fratelli Rocco e Rosario Gallo, che lo esercitano con la massima cura, competenza e, soprattutto, passione.
Ed eccoli lì, i due fratelli, arrampicarsi alle pareti delle chiese a tendere grosse funi da un muro all'altro, a creare meravigliosi baldacchini (sotto i quali i santi, per qualche giorno, saranno esposti alla venerazione dei fedeli), a sudare sette camicie per rivestire muri e soffitti in occasione della festa.
Un ricchissimo campionario di tessuti e colori formano il bagaglio di lavoro dei due bravissimi artigiani professionisti. Rasi, damaschi, velluti, broccati, frange, disegni di carta e altri minuscoli ornamenti, uniti l'un l'altro per mezzo di semplicissimi spilli, conferiscono all'abitazione religiosa le sembianze e lo sfarzo di una lussuosissima villa orientale.



'U  SCARPARU

Quando ancora i primi calzaturifici non avevano ancora fatto la loro comparsa nelle regioni meridionali, il calzolaio (scarparu) era l'artigiano più importante di Gioiosa.
Dei 20 calzolai all'epoca censiti, oggi ne rimangono, purtroppo, ben pochi.
Ma, nonostante la minaccia dei grossi complessi industriali che offrono prodotti a prezzi veramente irrisori, i nostri scarpari, malgrado tutto, non si arrendono.



'U  CUSTURERI

Si tratta di un antichissimo mestiere che, in questi ultimi anni, è andato via via scomparendo a causa delle modernissime industrie tessili che si sono insinuate autorevolmente sul mercato, proponendo e imponendo l'uso degli abiti confezionati a prezzi veramente sbalorditivi.
Qualche sarto in paese è rimasto ancora. Ma non è più 'u mastru custureri di una volta.
L'antico artigiano curvo sulla sua machina 'i cusri (macchina per cucire), non si è arreso ai duri colpi della concorrenza industriale.



'U  LINU

Pianta erbacea dai fiori azzurri e foglie lanceolate dal cui fusto lavorato si ricavava una fibra tessile e dai semi una farina che serviva per cataplasmi emollienti.
Per poterlo seminare bisognava preparare il terreno in modo tale che esso risultasse soffice e non ciottoloso.
La semina avveniva in aprile e il raccolto a maggio. Quest'ultimo veniva eseguito in due riprese:
- con la prima ripresa si strappava la parte sovrastante della pianta;
- con la seconda, invece, veniva raccolta la parte sottostante.
Il raccolto, essiccato al sole per 10-15 giorni, veniva legato a manne e poi battuto con la mazzoleja (mazzuola), per privarlo dei semi.
Conservato fino all'inoltrarsi dell'estate, veniva, poi, immerso nell'acqua della hjumara (fiumara) imprigionandolo sotto pesantissime pietre.

Dopo 8 o 10 giorni si risciacquava per ripulirlo della pricda (sporcizia caratteristica del lino) ed esso diventava quasi bianco.
Portato a casa, veniva asciugato al sole e poi scucuzzatu (privato delle cime) con un'accetta. Dopo di che si batteva sotto il mànganu e lo si riduceva quasi allo stato di stoppa.

 Giunti a questo punto il lino veniva 'ncardatu facendolo passare, accompagnandolo con le mani, tra gli innumerevoli chiodi appuntiti affissi su una tavola, con la punta rivolta verso l'alto (simile a quella che ci ricorda il letto dei fachiri...).
  La parte buona di esso rimaneva nelle mani, l'altra (linazza: capecchio), rimanendo tra i chiodi della rudimentale cardatrice, sotto forma di stoppa, unita eventualmente alla stoppa della ginestra, veniva pettinata e tessuta, confezionando tele di qualità poco pregiate.
Con la parte buona si faceva, invece, lo stimòni per il telaio (lino filato e preparato a matasse, che veniva prima candeggiato diverse volte nell'acqua corrente, e poi candeggiato con cenere a mo' di bucato).
Dopo averlo ben bene asciugato al sole, lo stimoni, veniva strajatu, immerso cioè per 12 ore in una soluzione di acqua e farina di grano (cilju), come se si volesse fargli assumere uno strato di paraffina, per evitare lo sfilacciamento durante il passaggio tra i denti del pettine battitore del telaio.

Lo stimoni paraffinato veniva, poi, 'ncannatu, avvolgendolo nei così detti cannola (grosse spole fatte con bastoncini di canna della lunghezza di circa 20 centimetri). Questi, inseriti nella cannolara, distribuivano il filato alla lurditura, dalla quale prendeva vita l'ordito che era, infine, arrotolato al subbio superiore del telaio e tessuto.



'A  VUCATA

La biancheria, pre-levata, si disponeva in un vaso di terracotta, delle dimensioni di una giara, alla cui base era praticato un foro che, durante l'operazione di bucato, doveva essere ben tappato.
I panni venivano sistemati facendo sì che i capi che necessitavano di un lavaggio più accurato, quali le lenzuola, occupassero la base del vaso.
Inserita tutta la biancheria, su di essa veniva steso un pezzo di tela da imballaggio (cinnarali) o sacco di juta (per evitare il passaggio della cenere) e sopra la tela uno strato più o meno sottile, appunto, di cenere.
Versando una certa quantità di acqua calda sopra la cenere, essa si infiltrava tra le maglie dell'imballaggio e andava a finire nel fondo del vaso, tenendo più a lungo a mollo la biancheria sottostante.
L'operazione, a seconda del tipo di biancheria, durava da poche ore a un'intera notte. Alla fine il foro veniva stappato per permettere la fuoriuscita dell'acqua sporca di cenere.
 Dopo avere risciacquato ben bene la biancheria e sciorinata al sole per farla asciugare, essa veniva deposta nel la cassa, assieme a qualche mela cotogna che le conferiva un certo senso di freschezza e un profumo inconfondibile.

E moltissimi altri mestieri ormai usciti per sempre dalla scena del vivere quotidiano.

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