La Grotta di San Michele 

e dintorni

Paesaggio e Ambiente

A Olevano sul Tusciano la vista è stupenda, sorprendente, piena di fascino. Si giunge a Cannabosto attraverso la tortuosa strada che da Salitto si inerpica verso gli ultimi uliveti del Monte Castello. Dato uno sguardo alla superba parte del Pappalondo, sesto grado puro, e alle pendici scoscese del Sant'Elmo, si prende la strada verso la pineta giovane che porta ai piedi dei due torrioni naturali tra i quali si leggono i ruderi dell'antico villaggio fortificato longobardo, il "Castrum Olibani". Lentamente, nel silenzio mitigato dal sussurrare della tenera brezza che pare ti porti il sapore del sale della luminosa marina nella quale disperdi il tuo sguardo, giungi alla vetta e ti trovi di fronte un paesaggio di una bellezza che ti invita alla commozione. A occidente, nelle brume del mattino, scorgi la sagoma scura di Capri: vedi il frastagliarsi della costiera amalfitana; Capodorso che si protende nel mare. Riparata, in dolce riposo, Salerno suggerisce millenni di storia e di studi. A sud, adagiato in placida attesa, Palinuro pilota il tuo sguardo sulla vicina Licosa che continua a biancheggiare, mollemente ammiccante ai naviganti. Agropoli presenta Paestum le cui colonne nascondono il verde cupo della piana lussureggiante di serre. Serpeggia il Sele, padre Silarus, mitico confine tra storia e leggenda: la sua foce fu approdo degli Argonauti e Giasone vi eresse il tempio di Era di Argo. E vedi paesi: San Cipriano incastonata tra i magici uliveti dei Monti Picentini; Montecorvino Rovella dominata dai ruderi del cstello longobardo, coevo di quello di Olevano. Amina e Picenza conservano il loro mistero nella piana, a occidente. A est sui bianchi Alburni, baluardo naturale, si adagiano Serre, Controne, Postiglione... Ai tuoi piedi Ariano, Monticelli, Salitto... Guardi, vedi e capisci perché tutti son passati da qui: Etruschi, Greci, Romani, Bizantini, Saraceni, Longobardi, Normanni, Svevi, Aragonesi, Borboni, Spagnoli, Piemontesi... Alle tue spalle la parete del Pappalondo incombe sulla stretta valle del fiume Tusciano a cui i Tusci diedero il nome quando lo posero a confine della loro espansione a sud.        

La Grotta

Dopo un quarto d'ora, il respiro affannoso, guardi in alto e, incombente, vedi il maestoso ingresso dell'antro. Alla tua sinistra, attaccato allo sperone di roccia su cui è la grande croce, ecco il "giardino del Papa" e i ruderi del convento. Avanti ti attende la lunga e accogliente panca di pietra, addossata alla parete di roccia, per darti ristoro ed offrirti visioni d'incanto: il Monte Castello è avanti a te e poi vedi l'azzurrino Terminio. "li Maj" dolomitici, gli ondulati monti di Eboli.*** Lungo il fiume, un'antica via concludeva il suo andare dall'Adriatico al Tirreno ed univa la mitica Appia alla preziosa Popilia. Quasi ai capilinea di questa oneraria, due grotte: quella di Monte Sant'Angelo del Gargano e quella di monte Sant'Elmo di Olevano: entrambe, consacrate, sin dai primi secoli del cristianesimo, al culto di San Michele. Lungo questa via, dal Gargano, attraverso Capitanata, Daunia, Irpinia fino a Grottaminarda e da qui a Montella e Acerno, l'antica tradizione di questi paesi vuole che sia passato Pietro per recarsi a Napoli, dove consacrò il primo Vescovo sul suolo italiano, prima di raggiungere Roma. A sostegno di questa tradizione è il culto petriano particolarmente sentito nelle zone attraversate da questa strada. Negli affreschi della Grotta di Olevano un importante capitolo è dedicato al primo Papa.***

La Chiesa di San Michele

La piccola chiesa è un regalo prezioso che ci viene da lontano. Alcuni interventi eseguiti in tempi passati, hanno alterato l'impianto originale fatto di linee sobrie e ben proporzionate, studiate in funzione della meravigliosa abside trilobata: all'abside centrale con la sede sono affiancati diaconicon e prothesis: ora molto è nascosto dall'ingobrante tronetto nel quale è la nicchia che ospita la statua dell'Arcangelo. Questo tronetto ingloba e nasconde il piccolo altare a mensa originale.

La Visitazione

Il riquadro successivo è un'opera complessa, una lettura precisa della pagina di Luca che parla della visita di Maria alla cugina Elisabetta. Il pittore ha posto molta attenzione ad ogni particolare: la Madonna, imponente, altera, abbraccia Elisabetta che, vociante, le era andata incontro, richiamando la curiosità dell'ancella che era corsa all'uscio per vedere cosa stesse succedendo fuori... Elisabetta, curva, affettuosa e premurosa, si piega verso Maria e l'abbraccia; Maria tocca il ventre della cugina ed ella sente il sobbalzo del figlio che porta in grembo: quel figlio concepito in tarda età e l'annunzio del cui concepimento aveva fatto restare letteralmente senza parole Zaccaria....Elisabetta dice: "Benedetta sei tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno..."Altissima solenne è la risposta di Maria: -"Magnificat anima mea Dominum..." E' curato il drappeggio, è bello il gesto dell'ancella che scosta la tenda, preziosa la damascatura della stoffa che scende morbida a differenza del vestito di Maria che è pesante e fa pensare al barracano.

La Natività

La scena della Natività è sorprendente! All'interno della stessa immagine c'è un racconto in più tempi. Questo affresco è identico, nell'impostazione, ad alcune composizioni della Cappadocia. L'arco della grotta inquadra ed ambienta il racconto. Al centro, vera protagonista, Maria, maestosa deipara, è sdraiata e circoscritta in un grande segno azzurro. In alto a sinistra il Bambino è nella mangiatoia, avvolto nelle fasce. Giuseppe, in disparte, pensa assorto. E' rappresentato senza l'aureola e la sottolineatura si spiega. Fu il momento del dubbio, della riflessione per quest'uomo che sarà detto giusto. Dubitò per un solo momento ma in quel momento non era pieno della grazia santificante: perciò non poteva essere rappresentato con l'aureola che è distintivo di santità. Questa sottile riflessione da parte del pittore è una qualificante lezione di teologia. In basso a destra è la lavanda del Bambino: e qui l'autore ha attinto al "Protovangelo di Giacomo": la levatrice e le aiutanti, Zelomi e Salome, entrambe di razza ebraica come aveva chiesto Giuseppe, lavano il bambino in un catino nel quale già leggi la forma del fonte battesimale. Il racconto prosegue, senza soluzione di continuità e l'Angelo mostra ai pastori l'astro che brilla nel cielo.

L'Adorazione dei Magi

Nel registro inferiore i Magi adorano il Re dei Re. La raffigurazione si rifà ai modelli greci che presentano i tre Re come le tre età dell'uomo: il giovane aitante, l'uomo nel pieno della maturità, il vecchio curvo. Il rosso cappello frigio caratterizza Magi e seguito. La Madonna ha in grembo il Bambino che riceve i doni. Gli Angeli testimoniano la divinità del Bambino.

Presentazione al Tempio

Nel registro superiore il Vangelo dell'Infanzia procede con la scena della Presentazione al Tempio. Anche questa immagine trascrive fedelmente la pagina di Luca. Al centro della composizione il Bambino siede su un altare che pare un tronetto sovrastato da un arco a tutto sesto, sorretto da elaborate colonnine. L'artista ha posto quest'arco ad inquadrare Gesù, mutuando il simbolo della Roma imperiale: l'arco è il trionfo per l'Imperatore e per gli dei. Maria, con gesto premuroso, presenta il bimbo al vecchio Simeone che non è un sacerdote ma un uomo pieno dello Spirito Santo a cui era stato predetto che avrebbe visto il figlio di Dio prima di morire. - "Signore, ora ho visto tutto: chiamami pure a Te" - disse. Dietro di lui è Anna, la vecchia profetessa che trascorreva la sua vita nel tempio cantando le lodi del Signore. Guarda, ispirata, verso l'alto e stringe nella mano il rotolo delle profezie.

La Fuga in Egitto

L'ultima figurazione del Vangelo dell'Infanzia è la "Fuga in Egitto". Di essa rimane ben poco, però quanto c'è è illuminante. L'asino ha in groppa Maria col Bambino in grembo: di Maria e del Bambino rimangono tracce del disegno inciso che ti permettono di leggere, nelle linee essenziali, la composizione. Giuseppe guida l'asino con la cavezza ma ciò lo indovini soltanto. Una figura minore con le gambe scoperte, segue l'asino: è Jacomo ed anche questo è un riferimento al Protovangelo di Giacomo. Dell'asino è rimasta la groppa e gli arti posteriori e ciò basta per farti apprezzare lo straordinario dinamismo con cui è colto il movimento dell'animale. Come non sottolineare le assonanze stilistiche ed esecutive tra questa e la stessa scena affrescata in Santa Maria Foras Portas in Castelseprio di Varese? Sarebbe ben strana coincidenza che i due artisti, quello di Olevano e quello di Castelseprio, non sapessero nulla l'uno dell'altro. O forse entrambi si sono ispirati allo stesso modello.... L'affresco di Catelseprio è definito da Giulio Carlo Argan "opera di artista greco del VII - VIII secolo, di passaggio, che non ha lasciato altra traccia di sé..."

San Pietro

A seguire vedi una teoria di Santi che ti richiamano alla mente, per i disegni più che per il colore, i mosaici di Ravenna. Le figure, ieratiche, imponenti, sono mal conservate, tranne quella di centro che ci è giunta quasi integra. E' Pietro primo Papa: una delle poche raffigurazioni del Principe degli Apostoli in pallio, il chiaro, ampio mantello che i greci portavano sopra la tunica. E' una delle figure più belle degli affreschi di Olevano.

La chiave di lettura degli affreschi

La pietas popolare, la fede più che l'umidità, rendono scarsamente leggibile una scena di grande importanza per comprendere tutto il ciclo degli affreschi del complesso monumentale di San Michele: il fumo e la fiamma delle candele accostate al muro hanno lasciato irreparabili ferite. Ma si può ancora interpretare questa composizione. ***Di fronte alla bocca della grotta, ben visibile ancora oggi, era il villaggio fortificato, protetto da triplice ordine di mura, che i Longobardi fecero edificare dopo la conquista di Salerno. A valle, Ariano potrebbe essere messa in relazione con Ario e con gli Ariani, eretici seguaci di Ario all'epoca di Costantino. I Longobardi si erano convertiti al Cattolicesimo e molti di essi provenivano dall'Arianesimo. Il piccolo prete eresiarca aveva lasciato ferite lente a sanarsi nella Chiesa dei primi secoli...La conversione longobarda era avvenuta principalmente in area lombarda per merito di Teodolinda, figlia spirituale di Papa Gregorio Magno che nella nostra zona è ricordato nel nome di un paese. Avevano conosciuto, i Longobardi di Milano, Monza, Pavia e dintorni, santi "locali": Ambrogio, Simpliciano, i gemelli Gervasio e Protasio...e quando scesero nel sud portarono con sé i loro "santi", come attesta la chiesa di Sant' Ambrogio di Montecorvino Rovella che effigia proprio i santi sopraddetti. Ricordiamo che sempre nello stesso territorio troviamo altri santi "milanesi": San Vittore a Giffoni Valle Piana, San Nazario a Montecorvino Rovella, i santi Nazario e Celso a Bracigliano...In questa zona, dunque, l'eresia di Ario era ben conosciuta ed i monaci bizantini, durante la deuterocolonizzazione greca - come Eber chiama la seconda colonizzazione greca che diciamo anche bizantina - quando presero possesso della grotta e fecero di un antro uno dei luoghi più suggestivi della penisola, si scagliarono con una serie di discorsi teologici contro l'eresia. Questa lotta ad Ario è visibile, come ha sottolineato il Canonico Arturo Carucci che per primo ha studiato gli affreschi di Olevano, in ogni immagine qui dipinta: il Bambino, il Cristo, i santi benedettini, gli evangelisti brandiscono due dita verso l'alto, non per benedire ma per sottolineare la duplice natura umana e divina di Gesù, che era stata sconsideratamente negata da Ario.

Costantino ed Ario

Ed eccoci all'affresco da cui eravamo partiti per questa necessaria digressione: "Concilio di Nicea: Costantino esilia Ario". Ora si comprende l'immagine e per la quale ragione questa scena sia stata inserita nel ciclo di affreschi di Olevano. Anastasio, prete, non ancora Vescovo, conduce Ario davanti all'imperatore Costantino il quale presiedeva il Concilio e che è dipinto con tutti gli attributi del suo rango: corona in testa, manto damascato, assiso in trono sotto un arco con armigeri corazzati che gli fanno da scorta. Ario, piccolo, minuto, insignificante, in abiti dimessi, è il simbolo dello sconfitto. Al suo fianco Atanasio lo sovrasta di una spanna, imponente, maestoso, aureolato, implacabile accusatore di Ario. L'imperatore con gesto che non ammette equivoci, con la mano destra gli india la via dell'esilio.

Gli affreschi delle absidi

Nell' absidiola di sinistra il Cristo consegna le chiavi a Pietro e la legge a Paolo: una classica "Traditio legis ed clavium". Il Cristo è straordinario, sicuramente uno dei più belli della storia dell'arte. Il volto è incorniciato nella ricca aureola crucisignata e gemmata. L'artista sconosciuto ha fermato la sua attenzione sullo sguardo dell'Uomo-Dio; una sguardo magnetico che ti ferma, ti legge dentro, ti esamina e conquista e ti segue ovunque tu, inquieto, ti sposti e dopo un po' che lo guardi non puoi fare a meno di abbassare i tuoi occhi. Il volto è realizzato con pochi, rapidi, sicuri segni, senza pentimenti. Il Cristo schiaccia il male sotto i piedi: il serpente e la bestia non potranno rialzarsi sotto il peso della condanna. Le palme, simbolo del martirio, uniscono al Cristo Pietro e Paolo. L'abside centrale ospita una "Madonna con bambino tra Santi". E' un affresco in cui noti una maggiore partecipazione del colore per creare una profonda suggestione che lega chi guarda a chi ha dipinto. Qui il colore sembra che non sia subordinato alla linea come negli affreschi precedenti. La sontuosità dei decori, le perle, le damascature, il movimento dei drappeggi, fanno da contrappunto alla mestizia del volto della Madonna che si presenta al Figlio, già presaga di ciò che sarà. Alla base di quest'abside, un grande masso affiorante non scoraggiò i costruttori che, anzi, ne sfruttarono la forma per inserirlo, così com'era, nel piccolo coro che faceva da sede. Nella terza abside Giovanni il Battista è tra gli evangelisti. Il lungo bastone terminante a croce, che accompagna costantemente l'iconografia di Giovanni, è quasi completamente scomparso: era stato aggiunto a tempera per rendere più veloce e scorrevole la stesura dell'affresco, così come è stato fatto, in tutto il ciclo, con altri particolari, anch'essi scomparsi a causa dell'effimera resistenza della tempera al tempo.

Sanctus Bitus

Sulla parete di destra, in una piccola nicchia, è l'effigie di San Vito: il santo giovinetto è rappresentato con simboli del martirio: corona, croce, palma, clamide rossa. L'artista ha dipinto l'abito con una straordinaria cura: drappeggi, damascature, decorazioni, la spilla preziosa che ferma l'abito sulla spalla destra. Tutto è annotato con amorosa attenzione. Ai lati della figura vedi da una parte la scritta SCS e dall'altra Bitus: bell'esempio di betacismo che perdura nel tempo: ancor oggi, nelle nostre zone, senti chiamare qualcuno "Bituccio". Questa è certamente la più antica immagine di San Vito nelle nostre zone, pervenutaci. Il giovane siciliano di origine bizantina arrivò ad Eboli tra il terzo e il quarto secolo e cominciò ad effettuare clamorose guarigioni: era particolarmente specializzato nel guarire le convulsioni e la "corea minor" che sarà detta poi "ballo di San Vito". A Roma Diocleziano aveva il figlioletto ammalato di questo male e quando seppe del nobile Vito, lo chiamò al capezzale dell'ammalato; il santo lo guarì ma ciò non lo salvò dalla persecuzione e dal martirio: si rifiutò di sacrificare agli dei e ciò determinò supplizio e morte. I suoi seguaci trasportarono le sue spoglie nell'ebolitano e fu sepolto in luogo "qui Marianus dicitur", forse in prossimità del Sele, dove sorgeva la vetusta chiesa di "San Vito alla Piana".

Il battesimo nel fiume Giordano

Non cercare sui libri di storia dell'arte le immagini che vedi a corredo di queste note: non le troverai. Arrivare qui, in grotta, costa fatica e agli studiosi piace lavorare alla scrivania e se ci sono da esaminare immagini preferiscono farlo sulle foto: solo qualcuno si è avventurato sin qui. Ma chi potrà mai darti l'emozione profonda che ti dà l'originale? "Il Battesimo nel Giordano": è questa un'opera anticipatrice di tanta pittura. Vedi in essa la composizione sapientemente studiata e i due angeli, il personaggio in primo piano con le mani velate, Giovanni, con gesti simmetrici convergono verso il centro a formare un arco ideale di cui la colomba è la chiave di volta, che circoscrive Cristo immerso nelle acque del Giordano. Completamente nudo, è una figura massiccia; le sue mani esplorano lo spazio e pare che cerchino l'equilibrio compromesso della scivolosità del letto del fiume. Reclinato leggermente il capo, accetta l'acqua lustrale che Giovanni gli versa. E' immerso nell'acqua fino al torace ed il battesimo avviene, contemporaneamente, per immersione ed aspersione. Le ondine del fiume che attraversano tutta la figura, non sono molto visibili: anch'esse erano state aggiunte a tempera. Pesci guizzano nell'acqua e, ai piedi del Cristo, due bambini con orci simboleggiano le due sorgenti del Giordano. In alto, in picchiata, la colomba che è simbolo dello Spirito Santo: identica la trovi due volte a Ravenna: nel Battesimo del battistero degli ortodossi ed in quello del battistero degli ariani. Le tre figure a destra, i due angeli ed il giovane in primo piano, con le aureole e le teste formano una composizione nella composizione: è un triangolo magico che non ti aspetti di trovare in pitture di epoche così remote. Guarda le quattro ali, il loro turbinare a spirale e la precisione del disegno di piume e penne con quel ritmico alternarsi di campiture azzurre e rosse scontornate di bianco. Giovanni non è vestito di pelli: non più mangiatore di cavallette, officia il rito con solennità di gesti e maestà sacerdotale. E' bellissima quella mano sinistra che pare spuntare dal nulla per stagliarsi contro il fondo scuro, invenzione bizantina più volte proposta nei secoli. I Vangeli, a proposito del Battesimo nel Giordano, non fanno cenno alla presenza di angeli al rito: ma negli affreschi di Olevano, essi sono sempre presenti ed hanno un compito specifico: sono i testimoni della divinità di Cristo, sono i celesti combattenti contro l'eresia: il discorso torna ad Ario, all'arianesimo e alla provenienza orientale dei monaci-artisti autori dell'intero ciclo.

La Crocifissione

Separata da una semplice linea rossa dal "Battesimo", è l'ultima composizione leggibile: La Crocifissione. Ad esso fa seguito uno spazio su cui le labili tracce di colore non permettono di comprendere quale soggetto vi fosse affrescato: la Resurrezione? l'Ascensione? la Pentecoste? Dalle tracce che vi sono è difficile pronunziarsi. La Crocifissione è composta in rigida simmetria. All'incalzare del ritmo verticale che si nota nella parte inferiore fa da contrappunto lo sviluppo orizzontale della parte superiore: i bracci della croce, le ali degli Arcangeli, il Sole, la Luna, evidenziano questa orizzontalità compositiva che stempera il dramma che si consuma nella parte inferiore e conferisce a tutto l'affresco un senso di pace, di accettazione dell'evento. Il Cristo sulla croce non manifesta alcuna sofferenza: è più Dio che uomo. Volge lo sguardo in alto, verso il Padre. Il corpo è composto, il busto eretto, le braccia aperte leggermente ondulate, le mani accettano il chiodo senza contrazioni e senza sgocciolamenti di sangue. La lezione teologica è chiara: Cristo è figlio di Dio, è della stessa sostanza del Padre (come sancì l'editto di Nicea) e con la morte si ricongiunge a Lui, perciò la morte non è supplizio, non è sofferenza. E' la chiesa trionfante d'Oriente che traspare da ogni immagine: è la visione bizantina del trionfo del divino sull'umano. A sinistra , sotto la croce, Longino si torce verso l'alto per raggiungere il Cristo con la lancia e dalla parte opposta Stephaton, in dinamico movimento, allunga verso il morente la canna sormontata dalla spugna. All'estrema sinistra Maria e Maddalena, con gesto da tragedia greca poggiano il volto sofferente al palmo della mano: è un dolore muto, intimo, accorato, sottolineato dallo sguardo attonito che si perde, incredulo, nel vuoto. Muto, pensoso, Giovanni, dall'altro lato, bilancia la composizione. I due bellissimi Arcangeli, testimoni ancora una volta, compaiono da dietro la croce, splendidi, nei loro colori, negli abiti dai drappeggi curati, nel fine disegno: concludono scenograficamente la composizione a cui bisogna aggiungere soltanto le sofferenti personificazioni del sole e della luna.

Domande e Risposte

Dopo aver dato uno sguardo a quanto è nella grotta e negli immediati dintorni, vengono spontanee alcune domande: chi ha costruito le cappelle? Chi ha dipinto gli affreschi? Quando si è insediata nella grotta la comunità dei monaci greci? Fino a quando sono rimasti in questo luogo? A molte di queste domande non è ancora possibile rispondere in modo certo e documentato. Spesso perciò bisogna fare ricorso ad argomentazioni che, pur cercando agganci paralleli, sono sempre soggettive. E' da tenere presente, fra l'altro, che il periodo storico che va dalla caduta dell'Impero Romano fino al X-XI secolo è avarissimo di documenti cartacei che sono quelli preferiti dagli storici per le indagini. Il periodo tardoantico-altomedievale, per quanto riguarda il Sud, non ha avuto molti studi organici ed estesi al territorio a cui si possa far riferimento. Solo in questi ultimi anni si comincia ad esplorare con sistematicità questo particolare periodo storico. Lo stesso discorso vale per la storia dell'arte: un'analisi obiettiva condotta con criteri scientifici su tutto quanto è pittura ed architettura bizantina nelle regioni meridionali è appena agli inizi e ad essa si avvicinano soltanto pochi studiosi. Tutto ciò non ha permesso di dare risposte incontestabili. Chi erano gli occupanti del sito? Erano monaci greci, di ciò si è sicuri, di quelli che sono detti "Basiliani", anche se questo termine è oggi quasi privo di significato in quanto tutti i monaci orientali, greci, italo-greci, italioti che in conventi, laure, cenobi, si fermavano nel Mezzogiorno a vivere la loro esperienza di fede, sono detti "Basiliani", cioè seguaci della regola di san Basilio, anche quando seguivano altre regole o non ne seguivano affatto. Quelli di Olevano Sul Tusciano non sappiamo quale regola seguissero ma formavano una comunità numerosa, ricca, potente e conosciuta in tutta la zona. Tanto potente che si dava al suo interno un Abate con le stesse funzioni ed autorità di un Vescovo. Di ciò vi è anche traccia scritta sulla colonnina di destra del primo "martiryum" ove è inciso nel marmo "Oliban. Aepiscopus Petrus". L'Abate di Olevano riceveva l'investitura dell'Arcivescovo greco di Conza che era consacrato direttamente dal Patriarca di Costantinopoli. Era, quella di Montedoro, un'isola della Chiesa Greca che aveva un vero arcipelago nell'Italia Meridionale. Questi monaci reclamavano una certa indipendenza dalla Chiesa di Roma: seguivano liturgie bizantine, greco-ortodosse, greco-melchite, e mostravano scarso ossequio per i Vescovi di Santa Romana Chiesa. Si corse riparo cercando di dare alla Chiesa Salernitana una autorità tale per cui i Vescovi, gli Abati e gli Arcivescovi greci le dovessero per forza obbedienza: per questa ragione nel 989 all'Arcivescovo di Salerno fu data dignità e potestà di Metropolita, con completa giurisdizione sui Vescovi suffraganei. Nel 1908 la sede Metropolitana Salernitana fu elevata, con bolla pontificia, a Primaziale, con estensione della giurisdizione su buona parte del Mezzogiorno. Alla fine, con Gaimaro IV che nel 1035 espropriò i monaci di Olevano, la Curia Salernitana ebbe la meglio. Ai monaci furono confiscati convento, biblioteca, grotta, vigneti, campi coltivati ed incolti e tutto fu donato alla Badia di Cava. Iniziò così la latinizzazione del convento e del santuario e con essa una inesorabile e rapida decadenza. I monaci greci erano arrivati tra noi già al seguito dell'esercito guidato da Narsete che cancellò i Goti di Teia dalla storia nel 553, nella famosa battaglia combattuta ai piedi dei Monti Lattari. Poi, dopo il 725, quando a Costantinopoli iniziarono le persecuzioni connesse con la distribuzione delle immagini sacre, vi fu una vera caccia ai monaci-artisti a cui era riservato il diritto di dipingere immagini sacre. Allora legioni di monaci greci ed orientali lasciarono i territori dell'Impero d'Oriente per trovare rifugio nelle regioni del meridione d'Italia. La Chiesa di Roma non si era schierata contro le immagini sacre ma aveva soltanto fatto un fine distinguo tra "adorazione" e "venerazione".

I Monaci venuti dall'Oriente

I monaci venuti dall'Oriente trovarono un ambiente favorevole e fondarono conventi, eremi, cenobi, laure e vissero la loro vita spirituale in pace e tenuti in grande considerazione dalle popolazioni locali. Indubbiamente colpivano l'immaginazione della gente con i loro lunghi abiti scuri, col cappello cilindrico, le folte barbe che conferivano un aspetto ieratico. Le costruzioni nelle quali portavano esperienze secolari, i dipinti pieni di fascino, la solennità delle celebrazioni: tutto contribuiva a creare un'aura di mistero e di rispetto intorno a loro. Immagina di assistere alla celebrazione di una funzione religiosa all'interno del Santuario della Grotta di San Michele. I pellegrini trovano l'antro illuminato da centinaia di candele che tracciano un percorso, da martiryum a martiryum, fin nelle profondità delle viscere della montagna. I canti, solenni, monodici (ancor oggi puoi udirli nei monasteri di Monte Athos, nella penisola Calcidica, in Grecia), trovano una favolosa cassa armonica nella grotta in cui si propagano lontano anche i sussurri. La processione si snoda lenta ed i monaci, nei loro sfarzosi abiti rituali, precedono l'Abate mitrato, ricoperto di gioielli che sfolgorano e che procede con passo maestoso, seguendo una regia che è tutta tesa ad equilibrare sapientemente il naturale col soprannaturale, l'umano col divino. Entrato nella chiesa, l'Abate prende posto nella sede, quadro vivente tra gli affreschi risplendenti di colori, in quell'ambiente unico e misterioso. La pesante stola è fittamente istoriata con ricami di fili d'oro. I monaci officianti prendono possesso del presbiterio ed i cantori occupano i lunghi sedili che fiancheggiano le pareti del tempio. Ai canti segue il salmodiare delle litanie cui fa eco il popolo. I turiboli cesellati e impreziositi da gemme splendenti, col loro pendolare inondano di profumo i fedeli che si sentono come trasportati in un'atmosfera ultraterrena che induce ad intime commozioni. Lunghi silenzi pieni di attesa si alternano a canti. Ad un tratto la tenda che è attaccata all'iconostasi, viene spiegata per isolare il presbiterio e l'altare dai fedeli, per quei momenti della celebrazione riservati ai soli religiosi: mistero nel mistero. La celebrazione si conclude con la benedizione solenne impartita dall'Abate che, sotto il serico baldacchino sorretto da quattro dignitari, passa in mezzo alla gente innalzando il solenne ostensorio raggiato che brilla come il sole. Tutta la celebrazione è stata condotta in equilibrato bilinguismo che permette ai monaci di farsi capire dalle popolazioni locali in latino e a loro e dalla vivace minoranza greca di rimanere legata alla madrepatria col greco.

Dipingere al buio

Un'impresa notevole, fu, per i monaci-pittori, affrontare la stesura degli affreschi in un ambiente quasi buoi che bisognava rischiarare artificialmente. Non potevano dipingere alla luce delle fiaccole perché il tremolare delle fiamma produceva sul muro ombre oscillanti; dovevano far ricorso a piccole lanterne sistemate in prossimità della parete da affrescare. L'andito faceva anche da portalampade. Sul tavolo attrezzato a tavolozza venivano stemperati i pochi colori disponibili. Il pittore, seguendo il filo dei suoi pensieri o tradizionali modelli, tracciava linee ampie sull'intonaco fresco creando il racconto e poi cominciava la stesura delle campiture di colore con i pennelli che egli stesso si era fabbricato. Dipingeva con le pupille dilatate e caricava i tratti caratterizzanti i personaggi, perché potessero poi essere ben visti nella fioca luce di tutti i giorni. Dipingere in quell'ambiente offriva un vantaggio che ha permesso agli affreschi di arrivare fino a noi nelle condizioni in cui li vedi. Nella grotta il notevole tasso di umidità faceva essiccare molto lentamente l'intonaco, per cui il colore poteva penetrare a fondo in esso. L'artista non era costretto a dipingere con quella fretta che caratterizza, solitamente, la stesura degli affreschi: poteva così avere tempo per annotare con minuzia tanti particolari che si notano nella damascature delle stole, nelle decorazioni dei costumi, nelle sottolineature delle strutture. Anche per questa ragione gli affreschi di Olevano sono da considerarsi straordinari e "diversi" dai pochi altri della stessa epoca. Lo stile, la scuola, la provenienza dei pittori sono inequivocabilmente bizantini: lo sono per la cultura che da essi promana, per i costumi, per le lezioni teologiche, per la conoscenza che gli artisti avevano per i Vangeli Canonici e per gli Apocrifi, per le sottigliezze interpretative, per quel modo tutto bizantino di trasformare la realtà. L'arte bizantina è divisa dagli storici dell'arte in tre tronconi che si differenziano per provenienza, modo di esprimersi e finalità: a) -Arte Costantinopoliana: celebrativa, trionfante, magnificante dei fasti dell'Impero e della religione: pensa ai mosaici di Santa Sofia a Costantinopoli o a quelli di Ravenna; b) -Arte Siriaca: più dimessa, ragionata: offre una lettura fedele del Vangelo e degli Atti: è una prima "bibla pauperorum"; c) -Arte Cappadociana: ricca di simboli, illustrativa, permeata di poesia, fortemente espressiva. Ovviamente le differenze, pur se avvertibili, avvengono all'interno di uno stesso codice che presenta delle costanti che prescindono anche dalle tecniche esecutive: corpi allungati costituiti da tronchi corti e gambe lunghe; mani grandi, sguardo fisso, drappeggio suggerito più dalla linea che dal chiaroscuro...Sulla scorta di queste informazioni schematiche, puoi vedere come la pittura di Olevano sia comparabile con quella della Cappadocia anche se vi sono richiami ed episodi perfettamente cosmopolitani.

La danza delle date

La datazione degli affreschi offre un balletto di date che vanno dall'VIII al XII secolo... Spesso gli storici dell'arte sono in contrasto tra loro sulla datazione delle opere per qualche decennio o per un secolo ma arrivare a mezzo millennio mi sembra proprio un controsenso. I più si sono attestati intorno al X secolo; qualcuno riesce a precisare "ultimo quarto del IX secolo"...Altri stabiliscono l'867 come data "ante quem non" per colpa del monaco Bernardo. Fratello Bernardo era un monaco francese che intraprese un viaggio in Terra Santa. Uomo di terra e non di mare, fece il viaggio di andata a piedi e chissà in quali condizioni arrivò al Santo Sepolcro e dopo quanti mesi di cammino! Quando fu il momento del ritorno, dopo un periodo di permanenza in Terra Santa, memore dei sacrifici sopportati all'andata, preferì affrontare i rischi del mare e trovò posto su di un'imbarcazione che doveva portarlo sulle coste del Lazio in una quindicina di giorni di navigazione, per effettuare la visita a Roma. Ma il viaggio fu tormentato dalla bonaccia e si protrasse per un periodo più lungo del previsto. Quando l'imbarcazione toccò terra sulle nostre coste, il monaco Bernardo preferì proseguire il viaggio a piedi, d convento in convento. Il primo che toccò fu, appunto, quello di San Michele in Montedoro per rendere omaggio all'Abate Valentino: immaginiamo la fatica che fece per raggiungerlo dopo tanto tempo passato nella quasi immobilità nell'angusta imbarcazione che sicuramente non era da crociera! Rimase nel convento della grotta dell'Angelo per qualche giorno e poi riprese il suo andare verso Roma. Quivi giunto, scrisse una relazione al Papa sul suo scomodo viaggio al Santo Sepolcro. In essa il monaco francese fece cenno alla sua sosta nel monastero di Olevano e, in un paio di righe, dice che è scomodo da raggiungere, che la grotta è circondata da una grande selva, che è fredda e umida e che in essa è facile scivolare ed inciampare e che si deve essere accompagnati da qualcuno che ti illumina il percorso con una lanterna. Aggiunge che nella grotta vi sono "septem altaria"...Non dice altro. Qualche studioso di questo documento trae la seguente conclusione: non parla di affreschi: dunque non c'erano ancora, per cui sono stati dipinti dopo l'867. E' facile invece immaginare che gli affreschi ci siano stati; i monaci, appena costruita la chiesa, avevano provveduto ad affrescarla, almeno in parte: non c'è ragione alcuna per credere che essi, finita la costruzione, aspettassero chi o cosa per affrescarla. Bernardo non parla degli affreschi perché, nel contesto della relazione, il particolare non aveva nessuna importanza. Si può anche ipotizzare che egli, attento com'era a non inciampare e a non scivolare, non vi abbia prestato nessuna attenzione o che, in fase di stesura del testo, non se ne sia ricordato. La relazione del monaco Bernardo, lungi dall'affermare che nell'867 gli affreschi non c'erano, attesta che nella grotta vi erano sette altari, cioè quelli dei sei martirya e quello della chiesa di San Michele: e se c'era la chiesa, pensiamo che fosse anche affrescata.

Leggenda e Storia

Dall'ingresso della grotta di San Michele, ben si vede un altro antro che si apre alla base di uno dei due torrioni naturali inglobati nel "Castrum Olibani". E' questa, dice la tradizione, la prima grotta dell'Angelo mentre quella attuale era di Lucifero. L'Angelo aveva una grotta piccola, scomoda, poco consona al suo rango mentre Lucifero viveva in questo antro accogliente, maestoso e confortevole. Un giorno, per mortificare l'Angelo, lo invitò a visitare la sua dimora splendida: Michele venne e si rese conto dell'enorme differenza che esisteva tra le due grotte e decise di installarsi in questo dopo, beninteso, avere sloggiato lo scomodo inquilino. Pensò che la via più rapida per comunicare a Lucifero lo sfratto e renderlo esecutivo, fosse quello del calcione nel sedere. Improvvisa, perentoria, violenta e solenne, la pedata partì e catapultò nel fondovalle Lucifero colpito nel fondoschiena senza che potesse opporre resistenza. Mentre precipitava poggiò la zampa su un masso che è a mezza costa e su di esso lasciò una grossa impronta di piede caprino: questa impronta, detta "ciampa del diavolo" offre un elemento "reale" a supporto del racconto popolare tramandato da padre in figlio: puoi vederla, toccarla, fotografarla scendendo di un centinaio di metri di quota, vicino alla "Cella di San Vincenzo". E' questa una costruzione che collega, in un certo modo, il nostro territorio a San Vincenzo al Volturno. Il sentiero di fondovalle è stato seguito anche dal più illustre dei visitatori che, attraverso i secoli, siano saliti alla grotta di san Michele: Ildebrando da Soana, Papa Gregorio VII. Roberto il Guiscardo, principe illuminato di Salerno, sapendo il Papa rinchiuso in Castel Sant'Angelo per sfuggire alle ire dei romani che mal sopportavano il rigore con cui cercava di riportare ordine nella Chiesa, mosse col suo esercito e marciò su Roma. La città offrì poca resistenza e fu messa al sacco. Il grande Papa fu liberato e furono officiati riti di ringraziamento in San Pietro. Nell'esercito di Roberto vi erano molti arabi mercenari i quali entrarono in Roma da vincitori per l'unica volta nella storia. Il Guiscardo, non fidandosi dei Romani e temendo l'arrivo di Enrico IV che si era fatto paladino dell'antipapa Clemente III, decise di condurre Gregorio VII a Salerno. Accolto dal tripudio della folla, entrò in città nel giugno del 1084. Il Papa continuò ad esercitare il suo alto magistero in Salerno ma, per l'età e per gli affanni e le tribolazioni subite, si ammalò, pare, di malattia polmonare. Il Vescovo Alfano I e gli altri medici salernitani - Salerno aveva già da circa tre secoli la prima università d'Europa, la famosa Scuola Medica Salernitana - ritennero che al Santo Padre potesse giovare un soggiorno montano: quale luogo sicuramente salubre poteva accogliere più degnamente il Pontefice del Convento della Grotta dell'Angelo? Fu effettuato il viaggio, dice la tradizione, in carrozza, portantina e, nell'ultimo tratto, a dorso di mulo: lungo tutto il tragitto la folla osannante fece ala al passaggio dell'illustre, santo ospite. Nel convento Gregorio VII rimase qualche tempo e memoria è giunta fino a noi della sua permanenza oltre che dalle cronache dell'epoca e della tradizione orale, dalla denominazione di alcune zone prospicienti la grotta. All'esterno dell'antro vedi i ruderi di quello che era il notevole convento a cui si accedeva attraverso il maestoso portale ogivale che ha sfidato i secoli. Intorno alla costruzione, in terrazzamenti ancora leggibili, i buoni frati coltivavano fiori ed erbe officinali: in questi giardini piaceva trascorrere il tempo a Ildebrando e a lui è rimasto legato il nome: sono da allora, "i giardini del Papa". Avanti alla grotta, in zona panoramica da cui si domina la valle e la piana, addossato alla parete ricoperta di muschio e di erica, vedi un sedile in pietra di nobile forma e sapiente costruzione: qui, sul cuscinone cilindrico di moda nel medioevo sedeva l'augusto pellegrino in cerca di salute e pace: è per tutti, ancora oggi, "il sedile del Papa". Gregorio VII ritornò a Salerno: aveva ritrovato la serenità ma non la salute. Morì il 25 maggio 1085, compianto dall'intera città. "Amai la giustizia, odiai l'iniquità: per questo muoio in esilio" disse negli ultimi momenti. Il suo corpo riposa nel duomo normanno che egli stesso aveva consacrato nell'autunno precedente.

Per l'appassionato di speleologia

La grotta, da un punto di vista speleologico, ha grande importanza. Il visitatore la trova misteriosa ed affascinante. Inoltrati tranquillo lungo l'antico sentiero che la percorre tutta ma abbi sempre con te una pila che possa sostituire l'illuminazione elettrica in caso di black-out. Dopo una sosta per contemplare l'ultimo martirya, comincia a polarizzare l'attenzione sulle bizzarre conformazioni che stalagmiti e stalattiti hanno assunto in migliaia di anni di sgocciolamenti di acqua e calcare. Vedi cascate pietrificate, battisteri imponenti, covoni che si stagliano lontani in immobilità surreali, bianchi tronchi che ti ricordano tormentati pini loricati: fatti guidare dalla fantasia e scopri tu forme e somiglianze. A metà della grotta, sul lato sinistro, una pozza cristallina rifrange la fioca luce sfaccettandola in mille riflessi sulle asperità della roccia. Vedi nello specchio d'acqua , rincorrersi cerchi concentrici in un gioco esterno. Sali e scendi, calibrando i passi, nel silenzio di nuove scoperte. Sei alla fine della grotta: una immane, rovinosa frana ostacola il tuo andare ma il fiotto d'aria che senti sul viso, ti dice che la galleria prosegue nel ventre del monte e cela per sempre i suoi segreti. 

Il braccio di Nard'Antuono

Nascosto tra i massi, uno stretto cunicolo ti introduce scomodamente nel braccio laterale a cui il popolo ha dato il nome del brigante che, dopo la cosiddetta unità d'Italia, qui trovò sicuro rifugio con la sua banda: Nard'Antuono, contrazione di Leonardo Antonio. Questo braccio della grotta è morfologicamente diverso da quello principale: è lungo circa 150 metri e presenta un dislivello di 30 metri. La galleria è tormentata: ora stretta che appena ci passi, ora larga ed accogliente. T'inerpichi su un terreno soffice, secco, asciutto mentre la pila esplora nicchie ed anfratti. La prima parte è ricca di stalattiti e stalagmiti. Guardi su, verso l'alto e un chiarore azzurrino, irreale, pare quasi che ti annunci un'alba lontana e ti fa da guida sicura di cui ti fidi perché è bello andare verso la luce. Tre aperture, tre grandi porte ormai diventate balconi, introducono nell'ultima parte di grotta fiotti di luce benedetta che ti ridanno tranquillità. Sei in una grande sala che uno sperone di roccia divide in due parti, in due ambienti ampi ed accoglienti. Una timida vegetazione acquista forza in prossimità delle aperture. Qui le tracce di antichi abitanti sono quasi in superficie: pietre scheggiate e lavorate, punte di frecce, raschiatoi, fusaiole, reperti fittili, attendono uno scavo scientifico, ben organizzato: il gruppo speleologico del C.A.I. di Napoli nel 66-67 fece dei sondaggi di scavo e, subito, le antiche testimonianze vennero alla luce. Quest'antro luminoso riparato dal vento rappresentava una dimora ideale per il cavernicolo: l'accesso era abbastanza scomodo ma facilmente difendibile, la legna per il fuoco sull'uscio, la zona di caccia ad un tiro di sasso, l'acqua, fresca e leggera, era assicurata per tutto l'anno in fondo alla grotta; a fondovalle il fiume offriva pesce prelibato....Per il lavoro le zone circostanti erano ricche di selce e l'ossidiana, alla fine, non era tanto lontana, la mortella per la concia delle pelli era a portata di mano. Ci si affaccia su di una vista mozzafiato: recenti sconvolgimenti hanno fatto sì che il dolce declivio che dall'ingresso della Nard'Antuono scendeva fino a valle si sia trasformato in una parete da scalata. Guardi a est verso Monti di Eboli e vedi colli ricoperti di verde fitto che sfuma nell'argento degli ulivi che, con contorcimenti dei tronchi centenari, caratterizzano tanta parte dei nostri paesaggi. Lungo il perimetro di questa grande sala la natura ha disegnato incavi nella roccia che ti fanno pensare ad alcove nelle quali gli antichi abitatori potevano trovare una certa intimità. In alcuni angoli non fai fatica ad immaginare bimbi che dormono su letti di felci. Al centro della "sala" era acceso il grande fuoco su cui vegliava, vestale ante litteram, l'anziana del gruppo. Il fumo ha lasciato annerita testimonianza sotto la volta. Generazioni e generazioni si sono susseguite in questo antro e, a cercare ben, tutti hanno lasciato tracce. In fondo alla grotta, in basso, vi è un angolo in cui è una eccezionale raccolta di ossa di animali, "avanzi di cucina": se lo studioso rovistasse tra esse, potrebbe dirti quali animali erano più frequentemente cacciati e con quali armi e potrebbe dare preziose indicazioni e datazioni sulla vita di questi nostri antenati. Il pastore transumante della civiltà appenninica conosceva ogni anfratto in cui cercare rifugio con la famiglia e col gregge: qui intorno una miriade di grotte lo testimonia. Pensa alle "Grotte di Giacobbe", prossime ad Eboli; alle grotte delle ripe del Tusciano, tra Battipaglia ed Olevano; alla grotta del Campanone; a quella di Sant'Oronzo in Occiano; alla grotta del Brigante e a quella del Santissimo Salvatore in Gauro; pensa alla grotta dello Scalandrone con cascata, laghetto e spiaggia, sull'Acellina, sorgente del Picentino....E' facile immaginare come per ogni gruppo, per ogni tribù della zona, il sogno abitativo fosse costituito dalla grotta di Nard'Antuono per la "comodità" che offriva e per la sicurezza che in essa si poteva trovare. Chissà se questi primitivi erano contemplativi: se lo erano, le radiose albe di cui potevano godere da questa grotta i cui ingressi guardano a levante, compensavano abbondantemente i timori e le paure delle lunghe notti nelle quali gli uomini erano pronti a sobbalzare al minimo rumore.... 

San Michele e la pietas popolare

"Quis ut Deus". Chi è come Dio? E' il significato del nome "Michele", in ebraico Mi Ka El. Egli era venerato nella Sinagoga ed appare quale speciale protettore del popolo eletto. La chiesa Cattolica gli ha riservato un culto particolare considerandolo sempre presente nella lotta che si combatte contro le forze del male. E' protettore della Chiesa. Il suo culto si è sviluppato prima in Oriente e poi in Occidente. Nei primi secoli particolarmente sentito fu il culto di San Michele dei monaci che vivevano nella miriade di grotte scavate nelle pareti calcaree della Cappadocia. Nel salernitano la venerazione per l'Arcangelo è molto diffusa ed antichissima, spesso introdotta dai monaci bizantini. Molti santuari a lui dedicati si trovano in grotte e sono stati edificati su precedenti templi pagani. Ricordiamo San Michele a Carpineto, tempio pagano trasformato in chiesa cristiana durante la dominazione normanna; San Michele a Calvanico, che sorge in alta montagna a nord-est di Salerno; la grotta di Sant'Angelo a Fasanella: addossati al suo ingresso sorgono i resti di una badia; la grotta di San Michele su una ormai quasi irraggiungibile ripa a Valva; la grotta dell'Angelo a Pertosa; la spettacolare grotta di San Michele a Campagna ...e l'elenco potrebbe continuare. Protettore di Olevano Sul Tusciano, San Michele è qui festeggiato più volte durante l'anno e ciò dimostra la profondità del sentimento di venerazione che è sentito per il patrono alato. La quarta domenica di Quaresima la statua dell'Angelo viene prelevata dalla nicchia nella grotta e portata in processione a Salitto, nella chiesa della Madonna del Soccorso. Rimane qui, tra tridui e novene, fino al lunedì in albis quando viene trasferita ad Ariano nella chiesa di san Leone Magno. Da Ariano passa a Monticelli in San Marco dove rimane fino al mattino dell'8 maggio. E' questo il giorno della grande festa popolare che coinvolge migliaia di fedeli. La statua viene riportata nel santuario della grotta, passando attraverso le tre principali frazioni che compongono Olevano. La processione è imponente: precedono la statua i "fratelli" delle varie congregazioni con i loro antichi costumi e con gli stendardi. Uno sbandieratore ripete antichi gesti. Seguono le associazioni cattoliche, il clero, la banda musicale. Negli anni buoni la processione è formata da migliaia di fedeli che per ore, sotto il sole, girano fra le frazioni fino a Cannabosto dove è indispensabile una sosta ristoratrice per riprendere fiato. Qui, nella cappelletta, viene celebrata la messa mentre i più stanchi si rinfrescano e rifocillano. Alla fine del sacro rito uno spettacolo di fuochi pirotecnici porta lontano l'eco assordante degli scoppi dei "colpi scuri". A questo punto la processione riprende la via che la porterà alla grotta, ma soltanto alcune centinaia di fedeli hanno la forza di proseguire. Attraverso lo stretto sentiero dell'ascensione alla grotta, i portantini che si disputavano l'onore di offrire le spalle per il trasporto della statua sono scomparsi e pochi ardimentosi proseguono nel non facile compito di portare il Santo fin lassù. Una volta in grotta, dopo la "spoliazione", San Michele viene riposto nella sua nicchia e tutti si abbandonano sui banchi a cercare riposo mentre, fuori dalla grotta, salve di fuoco di artificio annunciano ai fedeli a valle che il Santo è tornato al suo posto. Prima di partire da Monticelli, la statua era stata "vestita" con la dote d'oro che durante gli altri 364 giorni dell'anno è custodita in banca: anelli, catenine, braccialetti, spille donate dai fedeli attraverso il tempo. Anche la spada e lo scudo che durante la processione l'Arcangelo aveva in mano, erano quelli della festa: di argento massiccio adesso vengono sostituiti da quelli di latta...I fedeli ritornano a valle all'imbrunire e torneranno alle loro case al buio: anche quest'anno, come avviene da secoli, hanno consacrato a San Michele l'intera giornata.

Comparazioni

Abbiamo detto in precedenza che l'arte bizantina si è mossa all'interno di canoni quasi immutabili, con variazioni dovute alla zona di provenienza ed al periodo storico cui il dipinto risale. Di preferenza i bizantini ornavano le chiese con lo splendore dei mosaici che però erano costosi e non dappertutto era possibile reperire le pietre giuste per ottenere le tessere e la pasta vitrea per alcuni colori particolari come, ad esempio, l'oro usato per gli sfondi. L'affresco, dunque, era un ripiego cui spesso facevano ricorso ma esso di solito conservava alcune caratteristiche espressive del mosaico, come l'imitazione di decorazioni ottenute con perlature, pietre dure, gemme. Gli affreschi di Olevano non sono ascrivibili ad un solo artista e ad una stessa epoca: tra le immagini del Vangelo dell'Infanzia e, ad esempio, "Il Battesimo nel Giordano" vi è una notevole differenza: quest'ultimo è stato dipinto da una mano più raffinata, con più colori, con maggiore impegno compositivo. Tutto ciò sta a significare che il ciclo sia stato dipinto da artisti diversi ed in tempi diversi: tra la realizzazione de "La Visitazione" e "La Crocifissione" potrebbe essere intercorso qualche secolo. E' arduo volere stabilire una datazione ma qualche comparazione con opere "vicine" a quelle di Olevano è interessante farla. Prima che il cataclisma della guerra sconvolgesse Istria e Dalmazia, percorremmo a ritroso un tratto di quella che viene indicata come la "via dei Basiliani" che dalla Grecia risaliva, lungo le coste, fino a Trieste. Era l'itinerario seguito dai monaci che non volevano attraversare l'Adriatico in navigazione. Avevano avuto alcune indicazioni di massima da studiosi d'arte tardoantica ed altomedievale dell'Università di Trieste cui avevano mostrato le foto degli affreschi di Olevano. Visitammo decine di chiese e chiesette, alcune delle quali giunte fino a noi nella loro veste originale. Tra le altre, splendida, la Basilica Eufrasiana di Parenzo dedicata a San Nicola, che ha una caratteristica particolare: la datazione certa che risale all'anno 550. Lo storico friulano Sergio Tavano, studioso di storia dell'arte bizantina, a proposito della basilica dice: "Una ventata nuova è da attribuirsi all'importazione di cartoni e maestranze al seguito dell'esercito di Narsete, attorno alla metà del VI° secolo: nascono così(...)i mosaici parietali di Parenzo". Si tratta di una chiesa di grande interesse arricchita da mosaici che ricoprono l'abside e che non sono ben fotografabili a causa di un ingombrante ciborio che è stato edificato sul presbiterio e che ricopre l'altare. Il citato Sergio Tavano dice che "l'abside è tutta incentrata nell'esaltazione della madre di Dio". Due immagini ci procurano un tuffo al cuore: l'Annunciazione e la Visitazione". Gli affreschi di Olevano iniziano con un'Annunciazione" di cui rimane ben poco, quasi illeggibili sono il grande Angelo Annunziante che occupa la parte maggiore della scena e Maria, seduta in trono, nella parte destra della composizione. L'immagine di Parenzo aiuta molto nella lettura perché quella di Olevano le è vicinissima... Ancora più sorprendente è "La Visitazione": le due immagini, quella di Parenzo e quella di Olevano, ricalcano lo stesso schema, con una serie di particolari addirittura identici. L'ancella che accorre all'esterno scostando la tenda sembra quasi che ricalchi lo stesso cartone: nell'immagine a corredo si possono notare le "somiglianze" che fanno apparire le due effigi come provenienti dalla stessa matrice artistica e culturale. A Trieste, nel sacello della cattedrale di San Giusto, vi sono affrescate otto scene della passione del santo giuliano. Una delle scene è straordinariamente raffrontabile con quella di "Costantino condanna Ario" di Olevano. Anche in questo caso l'affresco della Grotta di San Michele è al limite della leggibilità ma i particolari caratterizzanti sono ben decifrabili: l'imperatore dal gesto inequivocabile, l'arco con le colonnine tortili, gli armigeri, il "palatium"… L'affresco di Trieste è datato intorno all'anno 1000. La "Crocifissione" di Olevano è un'immagine di buona leggibilità: vogliamo far notare come i motivi caratterizzanti siano riscontrabili in una piccola opera che è uno splendido gioiello: la copertura di evangeliario detta "pace del Duca Orso", dell'VIII° secolo, che si trova nel Museo Nazionale di Cividale del Friuli, ricco di opere longobarde. Si tratta di una tavoletta di avorio intagliata: alla preziosa incorniciatura fa da contrappunto la minuzia con cui sono realizzate le figurine di buone proporzioni. L'impostazione compositiva è molto vicina a quella di Olevano: la posizione del Cristo sulla Croce, la simmetria, Longino e Stephaton, le antropomorfizzazioni del Sole e della Luna, sono richiami sui quali è bene fermarsi a riflettere. Abbiamo detto, nel testo, del raffronto tra "La fuga in Egitto" di Olevano e quella di Castelseprio di Varese ed altri cenni abbiamo fatto qua e là con altre composizioni: l'argomento è molto complesso ed andrebbe affrontato con ben altri spazi. Vediamo ora due "Natività" dipinte in Cappadocia: entrambe poco leggibili, provengono da due chiese in grotta, la Kiliclar e la Karanlik di Goreme. Anche nell'approssimazione della riproduzione si possono ben notare i nessi tra queste immagini e quella di Olevano: la composizione è la medesima, la Vergine campeggia al centro dello spazio; Giuseppe, assorto in disparte è ai margini della scena e identica è la collocazione della lavanda del bambino con Salome e Zelomi. A conclusione di queste note indicative proponiamo "Il Battesimo nel fiume Giordano", mosaico della chiesa di Dafni, in Grecia. E' evidente come questa composizione e quella di Olevano si rifacciano agli stessi canoni artistici e teologici. Lo stile e le soluzioni grafico-compositive sono identiche: l'angelo con le mani velate, il Battista, la sua mano sinistra, le ondine del fiume in cui è immerso il Cristo, tutto coincide perfettamente… Il mosaico di Dafni è del VI° secolo.