LA “GIUSTIFICAZIONE”

Non la mia giustizia derivante dalla legge, ma quella che deriva dalla fede in Cristo. (Filippesi 3,9)



Riconosciamo che l’uomo non è « giustificato dalle opere della legge ma soltanto per la fede in Gesù Cristo. Abbiamo creduto in Cristo Gesù per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge. Dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno». Per ben tre volte in questo versetto della Lettera ai Galati (2,16) san Paolo presenta il cuore del messaggio teologico che svilupperà in quello scritto e nel successivo capolavoro della Lettera ai Romani. Questa tesi è di solito sintetizzata nella formula “giustificazione per la fede’ e il suo contenuto è stato oggetto di dibattito fin dal ‘500 tra la Chiesa cattolica e la Riforma protestante, anche se nel 1999 si è approdati a una dichiarazione congiunta tra cattolici e luterani, capace di mettere in luce la sostanza comune della fede attorno a questo tema fondamentale.

Il vocabolo greco dikaiosyne, “giustificazione”, e il relativo verbo dikaioun, “giustificare”, sono di matrice giudiziaria e indicano il riconoscimento della giustizia e della correttezza di una persona. Ma il concetto religioso va ben oltre l’indicazione forense. Cercheremo ora di delinearlo in modo molto semplificato ed essenziale. Il punto di partenza è la “giustizia” di Dio, ossia il suo volere salvifico nei confronti della sua creatura. È quella che Paolo chiama la “grazia”, che in greco è espressa col vocabolo chàris, lo stesso che è alla base della nostra parola “carità”: si tratta, quindi, dell’amore del Signore che si indirizza all’uomo allontanatosi da lui col peccato. È Dio a muoversi per primo verso la sua creatura.

Infatti Paolo ai Romani scrive: «Isaia arriva fino ad affermare: Sono stato trovato anche da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me» (10,20). L’uomo, certo, con la sua libertà può accogliere o rifiutare la grazia, la giustizia salvatrice divina. L’accoglienza è appunto la fede, pistis in greco, che è l’adesione libera, volontaria e gioiosa al dono divino, è l’aprire le braccia alla sua grazia salvarne, al suo amore liberatore. Lo stato finale del credente autentico, cioè di colui che ha fede, è la “giustificazione”, ossia l’essere reso giusto da Dio che lo strappa dal male e dal peccato, dalla sarx, “carne”. Quest’ultima è per l’Apostolo il principio maligno interiore che conduce la nostra libertà al peccato (in greco hamartta).

L’uomo, però, può tentare di “giustificarsi” da solo, cioè di salvarsi attraverso le opere della legge, in un’osservanza di norme che impongono di praticare atti giusti, meritori. Ma è come se egli volesse uscire dalle sabbie mobili da solo, senza avere una mano sicura esterna, tesa da chi sta su una roccia stabile. È quello che dichiara Paolo quando denuncia l’illusione di chi vuole essere salvato «con una sua giustizia derivante dalla legge e non con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fi lippesi 3,9).

Le opere giuste sono, allora, eliminate? No, esse non sono la causa ultima della nostra salvezza, ma sono “il frutto” necessario che fluisce dalla nostra giustificazione, la quale ci conduce a compiere atti d’«amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). Essi sono il segno dell’autenticità della nostra giustificazione e della nostra fede vera.



LE PAROLE PER CAPIRE

LAPIDAZIONE - Esecuzione capitale macabra, compiuta con il lancio di pietre sul colpevole. I lapidatori imponevano prima le mani sul condannato a indicare che la responsabilità di quell’atto cadeva su di lui. Il testimone principale della condanna era colui che scagliava la prima pietra (Cv 8,7). La lapidazione di santo Stefano ha i contorni di un linciaggio popolare (Atti 7,57-60).

LOGHION - Termine tecnico greco usato dagli esegeti per designare una frase breve di Gesù citata dai Vangeli e contrassegnata da caratteristiche che ne avallano l’autenticità storica. Si pensa anche che una delle fonti usate dagli evangelisti per comporre le loro opere fosse una raccolta di Iòghia (plurale di Iòghion), cioè una sequenza di frasi di Gesù. Questa fonte è indicata dagli studiosi con la sigla convenzionale Q (dal tedesco Quelle, “fonte”).