LA “COSCIENZA”

Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini. (Atti 5,29)



Nel linguaggio dell’Antico Testamento la coscienza — la capacità di giudizio morale, intima e personale — è espressa col simbolo “cuore”. C’è anche il termine neshamah, quel misterioso filo vitale che unisce il Creatore e l’uomo in esclusiva (Genesi 2,7: «alito di vita», da non confondere con la rjìah, lo spirito vitale comune anche agli animali). Questa realtà è definita dal libro dei Proverbi come «una fiaccola del Signore che scruta tutti i segreti recessi del cuore» (20,27). Siamo, quindi, di fronte all’autocoscienza, che sarà poi esplicitata col termine greco preciso di synéidesis dal libro della Sapienza, opera biblica tarda, scritta appunto in greco, nella quale si parla della “coscienza” del peccatore sempre tormentata.

Ma sarà soprattutto san Paolo nel Nuovo Testamento (ove il termine greco citato ricorre 30 volte) a proporre il tema della coscienza con varie sfumature. Talora essa indica la semplice consapevolezza della natura dei propri pensieri e delle azioni. Altre volte si punta più decisamente verso la sua qualità morale, per cui si può parlare di coscienza “retta” “irreprensibile”, “buona”, “pura” (Atti degli Apostoli 23,1; 24,16 e in molti altri passi paolini); ma c’è anche la coscienza “contaminata”e “catti va” (Tito 1,15; Ebrei 10,22). È, quindi, necessario sorvegliare il proprio intimo e purificarlo dagli impulsi perversi.

Il testo che, però, sviluppa la questione della coscienza in modo più sistematico è da ricercare nei capitoli 8-10 della prima Lettera ai Corinzi ove si affronta il caso degli “idolotiti”, ossia delle carni immolate agli idoli nei sacrifici pagani. Ora, poteva accadere che un cristiano venisse invitato a una festa di parenti ancora pagani durante i quali si banchettava con una parte di quelle carni. L’Apostolo non ha alcuna esitazione a riconoscere il diritto di chi ha la coscienza retta — e che quindi sa che “gli idoli sono nulla” — di partecipare a tali pranzi familiari in serenità.

Tuttavia aggiunge subito un altro prindpio basilare, quello della carità. Infatti, se un altro cristiano dalla Coscienza più tormentata ti vedesse coinvolto in un simile rituale e ne rimanesse scandalizzato e turbato, allora tu devi rinunciare al pur legittimo diritto della tua coscienza e astenerti da quel gesto per amore nei confronti del tuo fratello più debole così da non essere d’inciampo alla sua fede. L’etica della carità ha, infatti, il primato su tutto. Si formula, quindi, indirettamente anche il principio del rispetto della coscienza altrui, anche se non del tutto corretta, qualora essa sia convinzione profonda di quella persona. In questa linea si colloca anche il complesso discorso sulla libertà religiosa e di opinione.

Un cenno merita anche l’obiezione di coscienza che già affiora nel Nuovo Testamento. Significativa è, infatti, la replica che san Pietro oppone al sinedrio che gli impone di «non insegnare più nel nome di Gesù»: «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (vedi Atti 5,27-29). Esiste, quindi, una legge interiore a cui si deve aderire in modo radicale, anche a costo di sacrificare interessi personali e la stessa vita, come sarà attestato dai martiri cristiani, anticipati da altri testimoni della loro fede come l’anziano ebreo Eleazaro (2Maccabei 6,l8-31).



LE PAROLE PER CAPIRE

AGNELLO - È l’animale tipico del mondo pastorale, destinato ad assumere — come nel caso del pastore — significati simbolici. Così diventa la vittima pasquale, immolata con le ossa integre (Esodo 12), che a sua volta è simbolo del Servo messianico del Signore (Isaia 53,7) e di Cristo crocifisso (Giovanni 19,36). Gesù è, infatti, definito dal Battista come «l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Giovanni 1,29), e ‘Apocalisse canta spesso il Cristo glorioso come «l’Agnello immolato, degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione»
(5,12).

PECORA - Fa parte del gregge come componente fondamentale: diventa così — nella simbologia pastorale biblica — il simbolo del fedele che segue il pastore Cristo (Giovanni 10). Nell’apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade, Giovanni usa due vocaboli greci per indicare la missione di Pietro: “pascere arnia”, cioè gli agnellini, e “pascere pròbata”, le pecore adulte, forse per designare la molteplicità del popolo di Dio.