IL "VANGELO"

Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio... (Luca 4,18)



Quando Gesù nella sinagoga del suo villaggio legge il passo di Isaia (6 1,1-3), che era proposto in quel sabato, egli si imbatte in una frase la quale in ebraico usa il verbo basser che l'antica traduzione greca della Bibbia aveva reso con euanghelizo e che Luca riprende nel suo racconto. Il significato è quello di "annunziare un lieto messaggio" e ha dato origine al sostantivo euanghelion, "evangelo", un vocabolo che risuona 76 volte nel Nuovo Testamento, accanto alle 54 ricorrenze del verbo "evangelizzare".

Il vocabolo era già noto al mondo pagano e significava "la buona notizia" di un evento o di un atto imperiale, destinato a portare benefici di indole materiale come le esenzioni fiscali.

Così in un'iscrizione greca di Priene (Asia Minore) del 9 a.C. si legge alla data di nascita dell'imperatore Augusto questa frase: "Il giorno natale del dio [AUGUSTO] fu per il mondo l'inizio dei buoni annunzi (euangheliòn)". Ma fondamentale rimane il legame con quella frase di Isaia letta e applicata a sé stesso da Gesù: la sua venuta nel mondo e la sua parola hanno la funzione di portare la salvezza ai poveri, ai miseri, agli ultimi della terra. Sarà in questa luce che il termine "vangelo" verrà attribuito ai quattro scritti che conservano parole e atti di Cristo, come è attestato già nel titolo di Marco: "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio".

Da questa frase si intuisce in modo chiaro il contenuto primario della "buona novella" cristiana: essa è la proclamazione della persona di Gesù Cristo e della salvezza da lui offerta, ossia il regno di Dio, un progetto divino di liberazione, di verità, di giustizia e di amore. Si comprende, allora, come il "vangelo" per eccellenza sia lo stesso Gesù di Nazaret, uomo storico, che è però anche Figlio di Dio, le cui azioni concrete e le cui parole trasmesse inaugurano un orizzonte trascendente e rivelano un messaggio divino. Sarà soprattutto san Paolo a dare rilievo al vocabolo "vangelo": si pensi che delle 76 volte citate in cui ilvocabolo ricorre nel Nuovo Testamento, ben 60 sono nelle lettere paoline.

L'Apostolo parla di "vangelo di Dio", "di Cristo", "del Figlio di Dio" perché il cuore di quell'annunzio è appunto "il Figlio di Dio, nato dalla stirpe cli Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dei morti, Gesù Cristo, nostro Signore" (Romani 1,3-4). Non si tratta, quindi, di una teoria ma di un evento che unisce in sé umano e divino, storia ed eterno, spazio e infinito, morte e risurrezione. Non èuna proposta religiosa umana, ma è una rivelazione divina: "Il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo" (Galati 1,1 1-12).

È, quindi, necessario essere "obbedienti" al vangelo come parola di Dio ed essere sempre attenti a non deformarne la sostanza di verità, come accade a Corinto (2Corinzi 11,4) e tra i Galati (1,6). Èquesto il grande rischio sempre in agguato, al quale bisogna reagire con la fedeltà pura e assoluta e con l'impegno generoso per la sua diffusione, come dichiara autobiograficamente Paolo: "Tutto io faccio per il vangelo" (1 Corinzi 9,23). E, sulla scia di Gesù, anche il discepolo deve andare "perle città e i villaggi, predicando e annunziando il vangelo del regno di Dio" (Luca 8,1).



LE PAROLE PER CAPIRE

CECITÀ - Le malattie oculari erano piuttosto diffuse nel Vicino Oriente a causa del sole abbagliante, del vento sabbioso e della scarsa igiene. "Aprire gli occhi ai ciechi" per ridare loro la vista diventa, allora, un atto tipicamente messianico. Esso, però, acquista un valore ulteriore, rispetto alla pura e semplice guarigione fisica: è il segno dell'illuminazione interiore della fede. In questa prospettiva si deve leggere, per esempio, il miracolo del cieco nato (Giovanni 9) e la definizione del battesimo come fotismòs, in greco "illuminazione" (2Corinzi 4,4.6).

ABBEVERARSI - Il termine generico rimanda all'atto di bere a una sorgente o di dissetarsi a un pozzo. Nella prima Lettera ai Corinzi (12,13) si ha questa espressione "abbeverarsi a un solo Spirito". Prima, nello stesso brano della Lettera, si è parlato del "battesimo in un solo Spirito", per cui alcuni pensano che si tratti del dono dello Spirito Santo nella confermazione o cresima (vedi Atti 8,15-16); altri, invece, lo riferiscono all'Eucaristia (vedi 1 Corinzi 10,4).