La “GRAZIA”

Li esortavano a perseverare nella grazia di Dio. (Atti 13,43)



Quando si parla di teologia della “grazia” il pensiero corre in prima battuta alla riflessione proposta da san Paolo nelle sue lettere. Tuttavia bisogna dire che questo tema religioso affiora già nelle pagine dell’Antico Testamento, ove si esalta la libera generosità divina che si china sulle sue creature riscattandole, benedicendole, perdonandole, trasformandole. Si hanno vocaboli ebraici come hen, hesed, ’emet che esprimono questo concetto in tutte le sue iridescenze di dono, favore, benevolenza, fedeltà.

Esemplare è la famosa autodefinizione divina del Sinai: «Il Signore, il Signore, Diomisericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà» (Esodo 34,6). Nonostante i limiti e le miserie del suo popolo, Dio non fa mancare il suo amore “grazioso” e salvatore: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli –, ma perché il Signore vi ama» (Deuteronomio 7,7-8). La gratuità dell’elezione di Israele è il segno di un amore divino che trascende ogni merito umano. Per questa via entriamo nella riflessione paolina che usa il termine greco cháris, una parola che risuona ben 155 volte nel Nuovo Testamento.

Accanto a significati più immediati di ringraziamento e gioia (in greco chará) c’è un valore teologico che Paolo approfondisce in modo particolare. Per comprenderne il significato intimo partiamo da un dato curioso: dal greco cháris derivano le nostre parole “carità, caro, carezza” (oltre a charme, “fascino”). La grazia è, dunque, alimentata dall’amore. È l’ingresso libero e benevolo di Dio nella notte dell’uomo attanagliato dalla “carne”, ossia da quel principio oscuro che è dentro di noi e che ci spinge al peccato. Dio si mette per primo sulle nostre strade alla nostra ricerca, come egli afferma in una frase di Isaia (65,1), citata con passione dall’Apostolo: «Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non si rivolgevano a me» (Romani 10,20).

In principio c’è, allora, l’amore divino che squarcia la nostra solitudine e il nostro male. Questo atto è appunto la grazia, senza la quale noi continueremmo, da un lato, a sprofondare nel nostro peccato e, dall’altro, a tentare vanamente di uscirne attraverso l’osservanza delle opere imposte dalla legge. Abbiamo, invece, bisogno di una mano che ci sollevi verso l’alto. È questo il senso del grido finale del protagonista del famoso romanzo Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos (1936): «Tutto è grazia!». Limpide sono anche le parole di Paolo: «Noi siamo giustificati gratuitamente per la grazia di Dio in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Romani 3,24).

La fede altro non è se non l’accoglienza libera e gioiosa della grazia salvatrice che ci viene offerta in Cristo. È lo spalancare le braccia dell’anima per far entrare in noi l’amore divino donato. La grazia trascina con sé anche altri doni particolari e specifici per ciascuno di noi: sono i “carismi” che, come è evidente nel termine, sono un irraggiamento della cháris, della grazia che è destinata a tutti ed è uguale per tutti, ma che lascia anche segni propri in ciascuno. A questo punto la parola cháris esprime la nostra “gratitudine” al Signore della grazia: «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Romani 7,25).



LE PAROLE PER CAPIRE

ANTROPOMORFISMO - Con questo termine (che, dal greco, significa “a forma di uomo”) si è soliti definire quelle immagini che assegnano a Dio caratteristiche umane. È una via simbolica per riuscire a parlare di lui e della sua realtà in modo analogico rispetto alla nostra esperienza. Così, lo si raffigura come Padre, Pastore, Sposo, persino Madre; gli si assegnano braccia, mani, piedi; gli si attribuiscono sentimenti umani come ira, pentimento,dolore.

MANO-BRACCIO - Simboli di forza sono applicati anche a Dio quando interviene nella storia per giudicare l’oppressore e liberare la vittima. Si tratta, quindi, di un antropomorfismo, tipico soprattutto nella celebrazione della liberazione esodica di Israele dalla schiavitù egizia (ad esempio Esodo6,6; 15,6.16).