Isaia, il "Dante della poesia Ebraica"


Si era attorno all'anno 740 a.C. A Gerusalemme, in una residenza appartata, si spegneva il re Ozia, un sovrano particolarmente sfortunato perché colpito da lebbra, una malattia che - a causa della norma biblica - l'aveva costretto a vivere isolato.

In quello stesso anno, un sacerdote appartenente all'aristocrazia della città santa, di nome Isaia ("il Signore è salvezza"), mentre celebrava il culto nel tempio, aveva avuto una straordinaria esperienza mistica.

Gli era apparsa la corte celeste e, al centro, "il re, il Signore degli eserciti", cioè il Creatore dell'intero universo (gli "eserciti" divini nel linguaggio biblico sono gli angeli e le stelle).

All'improvviso, di fronte al terrore di Isaia, un serafino, cioè uno dei messaggeri angelici (il vocabolo indica qualcosa di ardente e fiammeggiante), aveva afferrato con una molla un carbone incandescente dall'altare degli olocausti e glielo aveva accostato alle labbra, quasi a toglierne le impurità e le scorie. L'atto simbolico era illuminante: Isaia era chiamato a essere profeta, ossia l'uomo della Parola divina. E la sua risposta era stata cosciente e decisa: "Eccomi, manda me!".

La liturgia di questa domenica ci propone proprio il racconto della vocazione di Isaia (capitolo 6). Noi non possiamo neppure abbozzare un ritratto di questo profeta che ci ha lasciato un libro molto ampio, che ha attraversato da protagonista la storia del suo tempo e che è diventato un emblema della profezia messianica nella tradizione cristiana.

Ci accontenteremo di due sole annotazioni. La prima riguarda il suo rapporto conflittuale con il re Acaz, il sovrano di Giuda suo contemporaneo. A lui il profeta farà balenare la nascita di un "Emmanuele", cioè di un segno della presenza divina in mezzo al suo popolo.

Abbiamo già avuto occasione di ricordare che questo annunzio riguardava la nascita attesa di un sovrano diverso, più giusto e fedele, forse proprio il figlio di Acaz, Ezechia, una figura che attuerà le speranze del profeta. Ma le parole che Isaia usa nei capitoli 7, 9, 11 del suo libro per esaltare l"Emmanuele" sono talmente alte e gloriose da far balenare un altro volto dietro il proffio di Ezechia, quello del Messia sperato. Ma c'è un'altra annotazione da fare: essa riguarda la sua opera in 66 capitoli e 16.930 parole ebraiche (il 5,63 per cento dell'intero Antico Testamento).

Gli studiosi, a partire dal 1775, sono convinti che sotto il patronato di Isaia siano presenti altre voci di profeti, i cui testi sono stati raccolti in quest'unico libro. Si tratta di testimoni di vicende accadute due secoli dopo, nel VI secolo a.C. (quando Israele stava per rientrare dall'esilio babilonese), ed essi sono stati convenzionalmente chiamati il "Secondo Isaia" (capitoli 40-55) e il "Terzo Isaia" (capitoli 56-66). Non si esclude, però, che altre mani abbiano dato il loro contributo a quest'opera profetica che ha nel Primo Isaia, "il Dante della poesia ebraica" com'è stato definito, la sua stella polare e il grande punto di riferimento. Non dimentichiamo che anche Gesù, nella sinagoga del suo villaggio, Nazaret, prese "il rotolo del profeta Isaia" e lo lesse davanti all'assemblea (Luca 4,17-20).