Balaam, il mago che Dio trasformò in profeta


La scena della Pentecoste con lo Spirito di Dio che soffia oltre le finestre del Cenacolo e si irradia nella molteplicità delle lingue e delle culture (Atti degli Apostoli 2) ci spinge a far avanzare dal remoto fondale del territorio di Moab, al di là del Giordano, la figura di un mago trasformato da Dio - malgrado la volontà dell'eletto - in un profeta.

Il suo nome in ebraico è Bil'am, divenuto nelle versioni Balaam, e forse significava "l'eloquente".

Il re Balak di Moab, vedendo avanzare nel suo territorio il gruppo tribale ebraico proveniente dall'Egitto, decide di ricorrere alle tecniche magiche di questo personaggio, allora acclamato per l'efficacia delle sue maledizioni e delle sue negromanzie.

Talmente efficaci erano quei suoi rituali che in Giordania nel 1967, nella località di Deir 'Allah, è venuta alla luce un'iscrizione, la quale recava questo titolo: "Iscrizione/libro di Balaam, figlio di Beor, l'uomo che vedeva gli dèi...". Si pensi che quel testo è almeno dell'VIII secolo a.C., e quindi si tratta di una preziosa conferma dei dati biblici riguardanti questo indovino originario - secondo il libro dei Numeri che nei capitoli 22-24 conserva il racconto della sua vicenda - di "Petor, sul fiume (Eufrate), nel paese dei figli di Amau" (22,5), forse la città aramea di Pitru. Il nome di suo padre, secondo la Bibbia e secondo quell'iscrizione, era Beor.

La sua storia merita di essere letta integralmente nei capitoli biblici indicati: indimenticabile è la scena del suo dialogo con l'asina che non vorrebbe proseguire verso l'accampamento ebreo contro il quale Balaam avrebbe dovuto pronunziare le sue maledizioni. Lo spunto, a prima vista favolistico (far parlare gli animali è tipico delle fiabe), è un modo per descrivere il contrasto all'interno della coscienza del mago, il quale vorrebbe eseguire gli ordini ben remunerati del re Balak, ma che al tempo stesso è ormai invaso dallo Spirito profetico divino.

È cosi che, giunto su un'altura davanti alle tribù ebraiche, Balaam anziché maledire pronunzia quattro carmi oracolari di celebrazione, esaltazione e benedizione nei confronti di Israele. Nel quarto di essi c'è una frase che la tradizione giudaica ha persino trasformato in un annunzio messianico. Glorificando la dinastia davidica futura, Balaam esclama:
"Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele" (24,17). Ora, l'antica versione aramaica, condotta sull'ebraico originario di questo passo, al posto di "stella" ha tradotto "Messia". La stella diventa, così, un simbolo messianico, come attesta il racconto dei Magi e come si definisce il Cristo nell'Apocalisse: "stella radiosa del mattino" (22,16).

Lo sviluppo del racconto biblico è, però, ostile a Balaam, accusato successivamente di aver fatto tralignare Israele nell'idolatria (Numeri 25). È per questo che nel Nuovo Testamento il mago diventa un segno di perversione: "Guai a coloro che si incamminano per la strada di Caino e, per sete di lucro, si sono impegolati nei traviamenti di Balaam!" (Giuda, v. 11; si vedano anche 2Pietro 2,15-16 e Apocalisse 2,14).