ZACCARIA E LE SPERANZE DEGLI EBREI


Tempo fa abbiamo introdotto il personaggio di Zaccaria, padre di Giovanni Battista. Ora, sulla scia della prima lettura della liturgia di questa domenica, faremo entrare in scena un suo omonimo, il profeta Zaccaria, vissuto più di cinque secoli prima.

Egli ci ha lasciato un libro di 14 capitoli in cui gli studiosi hanno riconosciuto - come è accaduto per quello di Isaia, ben più ampio (66 capitoli) -la presenza di più mani. Per la precisione i primi otto capitoli sono da ricondurre a Zaccaria ("il Signore si ricorda"), figlio del sacerdote Barachia, testimone dell'avvio della rinascita di Gerusalemme dopo l'esilio babilonese (520 a.C.); gli altri capitoli, dal 9 al 14, sono invece da attribuire a un profeta posteriore vissuto almeno un paio di secoli dopo, quando all'orizzonte era già apparso Alessandro Magno.

Le pagine di questo libro sono la fonte a cui dobbiamo attingere per ricomporre le speranze di Zaccaria e degli Ebrei del suo tempo, legati ormai al sacerdozio come a un vessilo della nazione, dopo la fine della dinastia davidica.
Certo, c'è anche un capo politico di nome Zorobabele ("seme di Babilonia"), ma è soprattutto il sommo sacerdote di allora, Giosuè, a costituire il punto di riferimento capitale. Nella quarta delle otto visioni, che il profeta dipinge con colori e personaggi emozionanti, domina, infatti, la figura di questo Giosuè, rivestito dell'abito solenne sacerdotale della liturgia festiva: egli sta per inaugurare un nuovo culto nel tempio riedificato.

Ma la visione si allarga introducendo un'altra figura simbolica di stampo messianico: "Ecco, io manderò il mio servo Germoglio" (3,8) e, più avanti: "ecco l'uomo che si chiama Germoglio, spunterà da sé e ricostruirà il tempio del Signore" (6,12). Ora, il "germoglio" era un'immagine destinata a rappresentare il re-Messia, sulla base di quanto aveva già annunziato Isaia: "Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse", il padre di Davide (11,1). Da un albero ormai arido com'era quello della dinastia davidica anche Zaccaria vede fiorire un germoglio di vita, un dono divino, che incarna il Messia liberatore di Israele, ritornato, dopo l'esilio babilonese, nella terra dei padri.

Parlavo prima di visioni: sono un modo caro ai profeti per disegnare il senso profondo e nascosto della storia, così da intuirne la traiettoria e la meta a cui Dio la vuole condurre. Le immagini sono spesso surreali: cavalli rossi, sauri e bianchi, boschetti di mirto, corna (segno di potenza), fabbri, corde di misurazione, candelabri a sette braccia, immensi rotoli che si dispiegano nei cieli, un'anfora enorme da cui esce una donna il cui nome è Malvagità, carri da guerra e così via. Anche l'altro profeta anonimo, la cui opera è stata posta sotto il patronato di Zaccaria, ama queste scene impressionanti.

La liturgia di questa domenica ne propone una molto essenziale (12,10-11).
Al centro c'è la figura di un uomo trafitto, un pastore di Israele ucciso dalla malvagità del suo popolo. Ma il popolo si converte e, fissando gli occhi in quel martire, piange la sua colpa con un dolore sincero e lancinante, simile a quello che si mostrava in occasione di un rituale orientale pagano (il lamento di Adad-Rimmon"). È facile ricordare che Giovanni nel suo Vangelo applicherà queste parole al Cristo crocifisso trafitto da un soldato (19,37).