Tobia, esule in terra straniera


La stupenda parabola del buon Samaritano (Luca 10,25-37) che la liturgia di questa domenica ci propone può suggerire il riferimento libero a un uomo particolarmente caritatevole dell'Antico Testamento. È un ebreo osservante che vive esule a Ninive, l'antica capitale degli Assiri: il suo nome è Tobi e suo figlio si chiama Tobia. Si tratta in pratica di nomi affini che la traduzione latina della Bibbia, la Vulgata di san Girolamo, ha uniformato in Tobia ("il Signore è buono"). Noi adotteremo questa forma che è anche il titolo del libro che narra le travagliate vicende di questi due ebrei esuli in terra straniera ma fedeli alle tradizioni dei padri.

Lettura devota di famiglie ebree e cristiane, ispirazione di molte opere artistiche a causa del candore spontaneo e popolare di molte sue pagine, "commedia fine e amabile, poema molto bello e utile" secondo Lutero, questo libro propone -attraverso una sorta di sceneggiatura o montaggio di scene avventurose - un matrimonio raggiunto attraverso il superamento di molti ostacoli non solo pratici ma anche misteriosi (affiorano inquietanti presenze diaboliche). Alla fine, però, le nozze tra Tobia junior e Sara, imparentata con lui, approdano a una meta gioiosa. Anzi, nonostante tutte le prove, si respira sempre nel libro un'atmosfera serena e fiduciosa, anche perché accanto c'è la presenza del messaggero celeste, l'angelo custode Raffaele ("Dio guarisce").

Ma ritorniamo al primo attore del racconto, quel Tobi/Tobia senior da cui siamo partiti. Egli era stato deportato dalla Galilea a Ninive nell'VIII secolo a.C. Là Dio l'aveva benedetto facendolo prosperare, ma non gli aveva fatto mancare le prove: in una notte afosa, dormendo all'aperto nel cortile di casa, era stato accecato a causa della caduta di escrementi caldi di passero sugli occhi. Eppure la sua vita fino a quel momento era stata sempre segnata dalla carità verso il prossimo. Durante le feste ebraiche Tobia si premurava di cercare i poveri per offrire loro cibo e conforto. Anzi, era stato proprio durante una festa, quella di Pentecoste, che era accaduto un evento drammatico.

Il figlio Tobia, uscito per portare vivande ai poveri, era tornato stravolto: "Uno della nostra gente è stato strangolato e gettato in piazza!". Il padre non aveva esitato e, violando la norma del re che vietava la sepoltura degli Ebrei, era corso a raccogliere quel cadavere e l'aveva portato a casa sua, in attesa della notte per seppellirlo. Era stato proprio allora che era diventato cieco (Tobia 2). Eppure egli aveva continuato a testimoniare la sua fede e la sua carità. La ricompensa divina non poteva mancare. Sarà proprio l'angelo Raffaele, nascosto sotto le sembianze di un giovane di nome Azaria ("ll Signore aiuta"), non solo a guidare il figlio al matrimonio con Sara, ma anche a preparare per il padre cieco una pozione sanatrice.

"Raffaele disse a Tobia: Spalma il fiele del pesce (precedentemente raccolto) sugli occhi di tuo padre; il farmaco intaccherà e asporterà come scaglie le macchie bianche dai suoi occhi. Così tuo padre riavrà la vista e vedrà la luce" (11,8). E così accadrà. Tobia chiuderà, allora, la sua storia con un entusiastico canto di lode al Signore, celebrando l'amata Gerusalemme (Tobia 13), e si spegnerà in pace all'età di 110 anni.