Marta la buona padrona di casa


Il personaggio di questa settimana è obbligato. Domenica la liturgia ci propone la tanto maltrattata Marta tratteggiata da Luca accanto alla sorella (tanto esaltata) Maria (10,38-42). In aramaico quel nome significa "signora, padrona"; quasi certamente è la sorella maggiore non solo perché si comporta da "padrona di casa" gestendo le funzioni dell'ospitalità, ma anche perché l'evangelista fa notare che la casa è sua: "Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa". La scena di Gesù ospite in quella residenza è stata amata dall'arte: penso a Velàzquez e a una sua tela del 1618 ora a Londra, a Vermeer (1653, a Edimburgo), a Overbeck (1815, a Berlino).

Lo scrittore francese Paul Claudel nel dramma Lo scambio (1894) chiamerà proprio Marta la protagonista, una donna tutta dedita alla famiglia e agli impegni quotidiani. La scrittrice inglese contemporanea Antonia Byatt la recupera come figura esemplare nel racconto Cristo nella casa di Marta e Maria. Sì, perché forse questa donna è stata sostanzialmente disprezzata per il suo impegno concreto, opposto a quello più spirituale e "intellettuale" della sorella minore Maria.

L'interpretazione tradizionale, infatti, vedeva nel brano di Luca il contrasto tra la vita contemplativa, esaltata e privilegiata, incarnata da Maria, e quella attiva, rappresentata da Marta, con la prevalenza della prima a discapito della seconda (ma Gesù non era forse anche lui un "attivo"?).

In realtà, la scena ha un altro significato che ha il suo cuore nella frase che Gesù rivolge a questa donna, frase che ha qualche increspatura nella trasmissione che i vari codici antichi hanno compiuto del testo evangelico. Noi la proponiamo nella forma più coerente e attendibile: "Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose. Ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno: Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta" (10,41-42). Maria era prima raffigurata in ascolto della parola di Cristo. Essa era, quindi, il ritratto del vero discepolo che, in qualsiasi contesto, tiene sempre fissa la realtà necessaria e fondamentale del legame con Dio.

Il limite di Marta, allora, non è nel fatto che era una lavoratrice, ma - come osserva Gesù - perché era tutta assorbita dalle troppe cose, era tutta presa dall'esteriorità. Non è, dunque, il lavoro in sé che allontana da Dio e dallo Spirito, ma l'alienazione in esso, l'esserne totalmente catturati, senza tenere aperto un canale di comunicazione con Dio, col mistero, con lo Spirito. Questo può accadere non solo a chi lavora materialmente, ma anche a chi è forse in monastero, eppure la sua mente è travolta e coinvolta in mille pensieri e distrazioni.

Anche Marta, pur continuando a essere la buona padrona di casa, attenta e servizievole nei confronti del suo ospite, potrà "ascoltare la Parola" interiore. Non per nulla sarà lei, in occasione della morte del fratello Lazzaro, a pronunziare una splendida professione di fede: "Io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo" (Giovanni 11,27).Testamento. E se vogliamo continuare la ricerca dei vari Giuda cristiani — che portavano un nome molto caro e nobile per gli Ebrei (pensiamo al patriarca Giuda, figlio di Giacobbe e Lia, colui che dette il nome alla tribù da cui discenderà Davide, o a Giuda Maccabeo) —, dovremmo evocare anche Giuda Bar-Sabba, cioè figlio di Sabba, figura di rilievo della comunità cristiana di Gerusalemme, delegato del primo “concilio” e predicatore ad Antiochia (Atti 15,22.32).

Oppure sarebbe da menzionare anche quel Giuda di Damasco che ospitò Paolo, appena reduce dall’esperienza sconvolgente della sua conversione (Atti9, il). E c’è anche negli Atti degli Apostoli la citazione di un ribelle antiromano, Giuda il Galileo, che ebbe un certo seguito come figura messianica, eliminato però dalla repressione imperiale (5,37). Ma ritorniamo al nostro Giuda Taddeo. Matteo e Marco, nella loro lista degli apostoli, io chiamano solo Taddeo. Curiosamente, però, alcuni antichi manoscritti del Vangelo di Matteo ci riferiscono di lui un altro nome, cioè Lebbeo, che vuoi dire “l’audace, il coraggioso” (in ebraico leb è il “cuore”).

Luca, invece, nel suo duplice elenco dei Dodici, quello conservato nel Vangelo (6,15) e quello degli Atti degli Apostoli (1,13), lo chiama Giuda di Giacomo. Siamo, quindi, in presenza di un personaggio dai molti nomi e dai contorni fluidi, tant’è vero che non è mancato chi lo identificasse anche col citato “fratello” di Gesù di cui sopra abbiamo già ricordato la connessione con la Lettera di Giuda. Di questo Giuda di Giacomo, Taddeo o Lebbeo, in pratica, non sappiamo altro, se non che seguì Gesù in silenzio, ascoltando la sua parola e camminando con lui per le strade polverose, prima della Galilea e poi della Giudea.

Ma, alla fine, poche ore prima che Gesù fosse arrestato, in quella sera intensa ed emozionante, mentre il Maestro nel Cenacolo, celebrata l’ultima cena, stava a lungo parlando, Giuda aveva finalmente avuto il coraggio di intervenire e aveva espresso a Gesù un dubbio che forse da tempo gli rodeva il cuore. È Giovanni a narrarcelo nel suo Vangelo: «Disse a Gesù Giuda, non l’Iscariota: Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo? Gli rispose Gesù: Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non ama, non osserva le mie parole e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato» (14,22-24). Cristo, dunque, si svelava a chi lo amava, e il mondo, invece, l’aveva odiato e non aveva ascoltato le sue parole.