Giacobbe e la sua lotta con Dio


Lo splendido cantico di Sion che la liturgia di questa prima domenica di Avvento ci propone, frutto del genio poetico e profetico di Isaia (2,2-5), è suggellato da un appello: "Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore".
Il termine "Giacobbe" è qui usato come nome "gentilizio", destinato a definire il popolo ebraico attraverso il ricorso a questo suo antenato, il terzo dei patriarchi, figlio di Isacco e nipote di Abramo. La sua vicenda, così come è tratteggiata dal libro della Genesi, comprende una serie dl eventi che possono essere riletti in chiave emblematica per Israele.

Egli è il gemello "minore" rispetto a Esaù-Edom: secondo il diritto umano sarebbe perciò scartato, e, invece, secondo il diritto divino - che paradossalmente predilige il "secondo" e ciò che "nel mondo è debole, ignobile e disprezzato per confondere i forti" (1Corinzi 1,27-28) - è chiamato a ricevere l'investitura a primogenito e, quindi, a far proseguire la linea della storia della salvezza. Certo, il metodo adottato dall'eletto è piuttosto sconcertante e obliquo, come si accorge chi legge il capitolo 27 della Genesi.

Ma è ormai Giacobbe a essere il destinatario della promessa divina, come accade nella scena notturna descritta in Genesi 28,11-22 che, tra l'altro, darà origine a un santuario capitale nella storia ebraica, quello di Betel ("casa di Dio").
Sarà, però, un'altra scena immersa nelle tenebre e nel mistero a porre il definitivo sigillo su questo patriarca - esule e pellegrino come lo saranno i suoi discendenti -, rendendolo l'eroe eponimo per eccellenza, cioè colui che imporrà il nome a Israele. Il testo, per molti versi emozionante, è quello di Genesi 32,25-33.

Lungo le rive di un affluente del Giordano, il fiume Iabbok, Giacobbe si scontra con un essere misterioso che la
tradizione ha raffigurato come angelo, ma che è segno di Dio. È una lotta che ha affascinato la storia dell'arte e della letteratura, una sorta di "agonia", cioè un combattimento estremo: "Un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all'articolazione del femore... Giacobbe gli disse: Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto... Gli replicò: Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!".
Quando sorge il sole, Giacobbe s'avanza zoppicante, segnato nel corpo, però soprattutto colpito nella persona e nella sua stessa identità. Canibiare il nome significa mutare il proprio essere e destino. Il patriarca fino a quell'incontro drammatico recava il nome tribale di Giacobbe (che darà origine anche a Giacomo), nome spiegato dalla Bibbia con un'etimologia popolare: quando egli era uscito dal grembo della madre stringeva il tallone del primogenito Esaù, e in ebraico "calcagno" è 'aqeb, donde Giacobbe.

In realtà gli studiosi intuiscono già in quel primo nome l'idea di lotta: ja'qub-el, "Dio ha lottato". Ma sarà nel nome "Israele" il nuovo nome del patriarca e il nome del popolo futuro, che secondo la Bibbia si condensa il mistero di quella notte: "Ti chiamerai Israele perché hai combattuto con Dio". Un rapporto di tensione però pure di gloria, di scontro ma anche di incontro.