IL CAPRO ESPIATORIO DEL POPOLO D’ISRAELE
 
 
È un libro certamente affascinante per il lettore occidentale moderno: contiene, infatti, una serie di norme, precetti, rubriche liturgiche, estremamente minuziose e apparentemente aride come le pietraie del deserto il libro biblico del Levitico, il testo ufficiale dei figli di Levi, i sacerdoti di Israele, si presenta proprio come un codice ove sfilano riti sacrificali, regole riguardaini la purità culturale con lunghi elenchi di cibi commestibili e cibi vietati secondo proibizioni ancestrali e spesso folcloristiche, norme concernenti malattie della pelle (tumore, pustole, macchie, ulcere, scottature, affezioni del cuoio capelluto, esantemi e soprattutto la lebbra che può colpire persino i vestiti e le case), precetti di indole sessuale, rituali prescritti perle varie solennità del calendario liturgico e così via.

Eppure il lettore paziente che penetra in questa selva di prescrizioni può scoprire non solo molte curiosità e sorprese, può anche imbattersi in pagine dotate di una loro intensità spirituale e persino estetica. Non dimentichiamo che il monito tanto caro a Gesù:
«Amerai il prossimo come te stesso» si trova proprio nel Levitico (19,18; vedi Matteo 5,43 e 22,39).
Ma anche nelle stesse norme rituali si incontrano descrizioni suggestive. Noi vorremmo ora rimandare al capitolo 16 con la sua complessa rappresentazione del Kippur, la solennità ebraica dell’Espiazione e, quindi, del perdono dei peccati. il vocabolo ebraico Kippur — divenuto popolare purtroppo per la guerra arabo-israeliana del 1973 — deriva da una radice che significa “coprire” e che è usata per indicare anche il perdono delle colpe, "coperte" agli occhi di Dio così che egli non le veda più e quindi non le imputi a condanna.

Così, nel Salmo 32,1 si dice: «Beato l’uomo cui è stata tolta la colpa e coperto il peccato», anche se il verbo usato qui è diverso (kasak invece di kippet). Ma il rito di quella festa espiatoria comprende un altro suggestivo cerimoniale. Al sacrificio compiuto con un giovenco, il cui sangue viene asperso dal sommo sacerdote nell’area più sacra del tempio, il “Santo dei santi” ove c’è l’arca con la presenza divina, si aggiunge un rito arcaico detto del “capro di Azazel”.

Questo nome, che in ebraico significa “potenza divina, fortissima”, era stato applicato anticamente a un demone che si credeva avesse come sede il deserto, terra arida e sterile, simbolo del caos, del nulla, del male. Ora, in occasione del Kippur, si sorteggiava un capro: su di esso “si scaricavano” tutti i peccati del popolo ebraico attraverso l’imposizione delle mani del sommo sacerdote e poi lo si cacciava dalla città facendolo fuggire nel deserto.

Ecco le parole del Levitico: «Aronne poserà le mani sul capo di Azazel, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti e le riverserà sulla testa del capro. Poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria», libererà Israele dal peccato. Sotto il folclore del rito si cela una specie di celebrazione “sacramentale” efficace della remissione delle colpe di tutto il popolo. Per questo il Kippur è ancor oggi un giorno importante di digiuno nel calendario ebraico; anzi, è chiamato Jomà, cioè “il Giorno” per eccellenza.