DAL SEPOLCRO D'ACQUA AL NUOVO ISRAELE


La Pasqua cristiana ha indubbiamente alle spalle quella ebraica descritta nel capitolo 12 del libro dell’Esodo.

Un testo notturno che si apre idealmente all’alba del grande giorno della liberazione, raffigurato in due pagine di grande potenza narrativa e religiosa, i capitoli 14 e 15 dello stesso libro biblico. Noi ora ci fermeremo sul primo di questi capitoli, immaginando di tenere come sottofondo musicale o lo splendido e sontuoso Israele in Egitto di Haendel (1739) o il suggestivo Mosè di Rossini (1818e 1827).

Nel Museo Egizio del Cairo, in un angolo, si erge — dimenticata dai turisti ma cara ai biblisti — una stele di basalto nero scoperta nel 1895 nella quale Mernephtah, il figlio del celebre Ramses 11, forse il faraone dell’oppressione di Israele, fece incidere queste parole: «Devastato è Israele, senza più seme». È la presenza più antica del nome Israele che è, come è evidente, evocato in un contesto di sconfitta.

Nell’interno della nostra pagina biblica ovviamente il parere è diverso: si celebra, infatti, in modo glorioso l’esodo dall’Egitto che però, a quanto risulta da un’analisi accurata dei testi, non fu un solo evento, ma si articolò almeno in due tentativi, un esodo-fuga e un esodo-espulsione, come sono soliti definirli gli studiosi.

Anzi, nello stesso capitolo 14 che descrive il celebre passaggio del Mar Rosso intravediamo almeno due modi diversi di raffigurare quel singolo evento. Un’antica tradizione ricorda che il transito degli Ebrei attraverso il «Mar delle Canne» (come si dice nel testo biblico),
cioè nell’area paludosa a oriente del delta del Nilo, fu favorito da un forte vento che, spirando per un’intera notte, prosciugò vaste aree rimuovendo le acque (14,21). Israele riesce a passare, mentre gli Egiziani incappano nel riflusso delle acque, causato forse anche dalla marea, essendo queste paludi in contatto col Mar Rosso.

Ben diversa è l’altra relazione, più ampia e dominante nel nostro capitolo. Essa è nella mente di tutti attraverso la rappresentazione cinematografica del film Dieci comandamenti di Cedil De Mille (1956), il quale ricorse a due muraglie d’acqua, usando tra l’altro una manipolazione visiva delle cascate del Niagara. Nel libro dell’Esodo la descrizione trionfale è, in realtà, un modo simbolico per offrire l’interpretazione religiosa di quella fuga. Non per nulla la scenografia è quasi quella di un’epifania divina: Mosè stende l’insegna del suo potere taumaturgico,
il bastone-scettro, gli Ebrei sfilano processionalmente tra le acque, segno del caos e del male, pronte a scatenare la loro furia devastatrice sull’armata faraonica, quasi come in un giudizio di Dio.

È in questa libera ricostruzione che emerge il significato profondo dell’esodo. Dio si rivela come il difensore degli oppressi, vincendo le forze del male, incarnate sia nel mare sia negli oppressori. Da quel sepolcro d’acqua esce il nuovo Israele liberato e redento e muore l’artefice della sofferenza delle vittime. È facile comprendere a questo punto l’interpretazione cristiana che leggerà in chiave ecclesiale l’esperienza esodica attribuendola al battezzato, entrato schiavo del peccato nel fonte battesimale e uscitone libero e salvato dalla grazia divina.