Il popolo canta al Dio liberatore


A partire dal 1517 Raffaello nelle Logge vaticane intraprese a dipingere un ciclo grandioso nel quale largo spazio ebbe la figura di Mosè, presente in ben otto scene distribuite su due volte.
Famosa rimane la scena del Mar Rosso: da un lato, ecco Israele che approda incolume alla riva della salvezza; d’altro lato, alle spalle del popolo, ecco ergersi Mosè che leva il suo bastone sui flutti che stanno per piombare precipiti sull’esercito faraonico.
È, questa, forse la più celebre delle raffigurazioni di una scena che la scorsa settimana abbiamo già cercato di definire nella sua matrice storica (avvenne forse in modo più “realistico”, attraverso il giuoco dei venti e delle maree) e simbolica (la gloriosa liberazione dalla schiavim).

Nel clima pasquale cristiano, che rimanda spesso ai segni esodici, noi ora ilprenderemo l’evento della traversata del Mar delle Canne (così è letteralmente chiamato nella Bibbia) attraverso la seconda pagina biblica che lo evoca.
Oltre al capitolo 14 dell’Esodo, già visto nella scorsa puntata, c’è il capitolo 15 che contiene al suo interno un solenne «cantico di Mosè», un inno al Dio liberatore che ha la sua sintesi nell’antifonaritornello intonato da Maria, la sorella di Mosè, con accompagnamento musicale di timpani e danze: «Cantate al Signore perché ha mirabilmente trionfato: ha gettato in mare cavallo e cavaliere!» (15,21).

Da questo nucleo germinale, che è simile a un piccolo Credo in onore del Signore salvatore e liberatore, si dipana il possente inno mosaico che si rivela però — almeno così com’è ora nel testo biblico — un cantico liturgico del tempio di Sion. Infatti, la meta a cui giunge la marcia degli Ebrei liberi non è né il deserto e neppure la terra promessa: è ormai «il monte della tua eredità, il luogo che per tua sede, Signore, hai preparato, santuario che le tue mani hanno fondato» (15,17). Siamo, quindi, a Gerusalemme, nella capitale scelta, due secoli dopo l’esodo, dal re Davide e nel tempio eretto da suo figlio Salomone sul colle di Sion.

Ma al centro del «cantico di Mosè» si delinea un potente quadro bellico, dominato dalla figura poderosa del Dio guerriero, supremo Signore dell’universo: «Dio è un eroe in guerra, Signore è il suo nome!» (15,3). Alle armate umane egli contrappone la sua «destra, terribile per potenza» che brandisce un’armatura cosmica, cioè la panoplia delle forze naturali che egli crea a catena: «Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi in fondo al mare... Soffiasti col tuo alito: il mare li avvolse, sprofondarono come piombo in acque profonde» (15,8.10).

È facile intuire che l’evento storico concreto è ormai trasfigurato e diventa la celebrazione dell’azione divina nelle vicende umane.
È un’irruzione in difesa degli oppressi e a esaltazione della libertà. Scriveva il filosofo ebreo austriaco Martin Buber (1878-1965) nella sua opera GogeMagog «Dio è il Dio della libertà. Egli, che possiede tutti i poteri per costringermi, non mi costringe.
Egli mi ha fatto partecipe della sua libertà». È per questo che il trattato del Talmud sulla Pasqua ebraica dichiara che «ogni generazione deve considerare sé stessa come uscita dall’esodo dall’Egitto».