« Ecco, sto alla porta e busso »


Lo scrittore francese Victor Hugo nella sua opera William Shakespeare, ponendo il Giovanni dell’Apocalisse a fianco dei geni dell’umanità, come Omero, Eschilo, Dante, dichiarava: «È in Giovanni di Patmos che è sensibile la comunicazione tra certi geni e l’abisso. In tutti gli altri poeti questa comunicazione solo s’intuisce; in Giovanni la si vede, a tratti la si tocca e si ha il brivido di posare la mano su questa porta cupa» (1,2,9). Qual è l’~abisso» del quale l’autore dell’Apocalisse apre «la porta cupa»? È indubbiamente
quello del male che si annida nella storia e spesso esplode celebrando i suoi trionfi. Ma c’è anche una soglia di luce che si apre su una meta di pienezza gloriosa.

Prendiamo, allora, in mano questo libro in realtà meno misterioso e visionario di quanto appaia dal suo immediato dettato e, durante queste settimane pasquali, sfogliamone qualche pagina. Indubbiamente siamo di fronte a un gioiello letterario, nonostante il suo autore sia pronto spesso - come scriveva uno studioso, Robert H. Charles - «a sfidare le leggi elementari della grammatica e della sintassi greca...; egli, infatti, pensava in ebraico o aramaico ma scriveva in greco».

Apriamo il libro in una delle sette lettere iniziali, indirizzate ad altrettante Chiese dell’Asia minore, alle quali anche il libro era destinato, le cosiddette «Chiese giovan
nee (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadeffia, Laodicea). Fermiamoci sull’ultima, rivolta a una prospera città che recava il nome di Laodice, moglie del suo fondatore, il re Antioco 11 (260-247 a.C.). Ai cristiani di quel centro è rivolto un messaggio aspro (3,14-22).

Il benessere, evocato dall’oro delle banche locali e dalle vesti prodotte dalle sue industrie tessili, ma anche dal collino che rende limpidi gli occhi (Laodicea era sede di una scuola di medicina oculistica), rende superficiali, ottunde la coscienza, intiepidisce l’anima.

Con un’immagine veemente appare la nausea che affiora dalla bocca di Cristo che non tollera il compromesso, l’ambiguità, la banalità, il vuoto interiore: «Tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, cioè non sei né freddo nè caldo, io sto per vomitarti dalla mia bocca» (3,15-16). La Chiesa Laodicea viene, quindi, «vomitata», respinta, rigettata lontano nel silenzio e nelle tenebre. Ma il sipario non cala sulla morte. Infatti, la finale della lettera a Laodicea contiene una splendida mini-parabola. Un commentatore dell’Apocalisse, Pierre Prigent, ha scritto:
«Ecco un versetto che non si ha voglia di spiegare coi pesanti strumenti dell’analisi storico-letteraria, tanto il suo messaggio è chiaro e di purissima bellezza».

Leggiamo, allora, il versetto (3,20): «Ecco, sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me». Cristo passa per le strade del mondo: noi siamo chiusi all’interno delle nostre case, nel cerchio del nostro piccolo orizzonte. Se egli non bussasse, noi resteremmo soli; se noi non aprissimo, egli passerebbe oltre. Grazia e libertà, Dio e uomo devono incontrarsi ed è solo così che scatta la comunione, l’intimità simboleggiata dalla cena, lui con noi, noi con lui.