Io, Paolo, anziano e in catene..............


Accanto a Pietro nella liturgia del 29 giugno è associato Paolo, l’altra colonna della Chiesa di Roma, come diceva san Clemente agli inizi del II secolo. Ci siamo spesso interessati delle Lettere dell’Apostolo perché esse costituiscono un patrimonio fondamentale non solo della fede cristiana ma anche della stessa cultura dell’Occidente. Ora, però, vorremmo presentare un documento molto personale e fin curioso di Paolo, forse il suo ultimo scritto. Si tratta di un commovente biglietto che egli, ormai «anziano e in catene», indirizza a Filemone, un amico ricco e generoso, «collaboratore» nell’annunzio del Vangelo, nella cui casa si radunava una comunità di cristiani, anche se ci è ignota la città (versetti 1-2).

A lui l’Apostolo chiede un favore piuttosto inatteso. Durante la sua carcerazione — forse si tratta degli arresti domiciliari a Roma agli inizi degli anni ‘60, descritti nella finale degli Atti degli Apostoli (28,30-31) — Paolo aveva avuto l’occasione di incontrare e «generare» alla fede e quindi battezzare uno schiavo di nome Onesimo (versetti 10-11). Costui era fuggito proprio dalla casa di Filemone: secondo il diritto romano, egli doveva essere restituito al padrone che ne avrebbe deciso la sorte come meglio gli fosse gradito.

La proposta che, invece, Paolo avanza è significativa per illustrare la nuova visione che il cristianesimo stava introducendo nelle relazioni sociali. Ascoltiamo l’Apostolo in un brano di questa Lettera a Filemone: «Ti rimando Onesimo, lui che è il mio cuore (in greco si ha splànchna, cioè «viscere», segno di amore «viscerale»)... È stato separato da te per un momento perché tu lo riavessi per sempre, non più come schiavo, ma come fratello amato tanto da me ancor più date, sia secondo la natura umana sia per la fede nel Signore. Se, dunque, mi consideri come amico, accoglilo come me stesso... Sì, fratello, che io possa ottenere da te favore nel Signore. Dà questo sollievo al mio cuore in Cristo! Ti scrivo fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più di quanto chiedo...» (versetti 12-2 1).

Tra l’altro, è suggestivo notare che Paolo si permette di aggiungere anche un tocco di ironia, quando scrive: «Se in qualcosa Onesimo ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Scrivo questo di mio pugno, io, Paolo: io stesso pagherò! Anche se vorrei dirti che mi sei debitore e proprio di te stesso!» (versetti 18-19). La tradizione popolare posteriore farà di Filemone un vescovo della città di Colossi nell’Asia Minore, alla cui Chiesa — come è noto — Paolo aveva già indirizzato una lettera, e naturalmente lo farà anche santo.

Ciò che affiora in queste righe è, comunque, la dimensione umana di Paolo, sensibile all’amicizia e lontano dallo stereotipo del freddo teorico, dell’arido teologo, privo di relazioni profonde e intime. L’Apostolo esce di scena, invece, proprio con un delizioso biglietto molto personale, segno di amore e di libertà. C’è nel saluto finale un bagliore di attesa riguardo al futuro: «Intanto preparami un alloggio perché spero — grazie alle vostre preghiere — di esservi felicemente restituito» (versetto 22).
Chissà se il desiderio di Paolo si realizzò prima della sua morte sotto Nerone imperatore!