Antiche mura di gerico


C'è solo l’imbarazzo della scelta. Si può entrare nella basilica romana di S. Maria Maggiore e alzare gli occhi verso i suoi mosaici del IV sec. per scoprire la scena del crollo delle mura di Gerico. Oppure mettersi davanti alla “Porta del paradiso” del Battistero di Firenze e in una formella in bronzo del Ghiberti (1425-1452) ritrovare la stessa scena. O ritornare a Roma, e nelle Logge Vaticane ammirare questo e gli altri eventi del libro di Giosuè raffigurati da Raffaello negli affreschi eseguiti coi suoi discepoli tra il 1516 e il 1518.
O ancora affidarsi alla melodia forte ed evocativa di uno “spiritual” degli afroamericani, Joshuafought the battie of Jericho (“Giosuè combatté la battaglia di Gerico”).

Effettivamente la presa di Gerico così com’è descritta nel capitolo 6 del libro di Giosuè costituisce un classico nella storia dell’arte. Essa è descritta nella cornice di una liturgia processionale con un apparato di sacerdoti, di fedeli, di trombe e di corni, con l’arca dell’alleanza, il palladio delle vittorie sacre di Israele, con un settenano di giri rituali. Alla fine la città più antica del mondo non è conquistata, ma è ricevuta in dono. Un dono divino, spiegato da alcuni con un terremoto o più semplicemente col fatto — che sembrerebbe attestato dall’archeologia — che Gerico era in quel periodo distrutta e abitata solo da qualche clan seminomade (si spiegherebbe, così, la presenza di Rahab, la cui storia abbiamo evocata la scorsa settimana).

Ma c’è un’altra pagina indimenticabile del libro di Giosuè: è quella della battaglia di Gabaon che tanti guai creò, secoli dopo, anche a Galileo. Giosuè, infatti, in quell’occasione intona un canto epico che di sua natura è trionfale e quindi da non leggere letteralisticamente, come purtroppo fecero i giudici di Galileo: «Sole, fermati in Gabaon! / E tu, o luna, sulla valle di Aialon. / Il sole si fermò / e la luna ristette immobile / finché il popolo non si fu vendicato dei suoi nemici» (10,12-13).

Con questa immagine, che è simile a quella delle acque del Mar Rosso, bloccate su ordine di Mosè, si vuole evocare qualcosa di simile al “giorno più lungo”, il titolo del libro di N. Ryan che descrive lo sbarco degli Alleati in Normandia durante l’ultima guerra mondiale. Il giorno della vittoria sembra non finire mai ed è visto dall’autore sacro come un’irruzione gloriosa di Dio che combatte a fianco del suo popolo con le armi cosmiche. Infatti a siglare la sconfitta della coalizione antisraelitica dei cinque re di Gabaon c’è una terribile grandinata: «il Signore lanciò dal cielo su di essi come grosse pietre e molti morirono» (10,11).

Certo, questo Dio guerriero e “partigiano”, che origina anche una lunga serie di eccidi — chiamati in ebraico herem, strage santa, anatema —, crea imbarazzo al lettore cristiano e semplicemente al lettore. È, quindi, necessario comprendere correttamente il libro di Giosuè, al di là della sua retorica marziale. Non si deve mai dimenticare che la Rivelazione biblica è storica: è, quindi, un lento manifestarsi di Dio anche attraverso i limiti e le miserie umane, la violenza e gli scandali della storia e l’ottusità della comprensione dell’uomo.