L'ex voto del marinaio ebreo


La nave oneraria romana avanzava nel Mediterraneo col suo carico di derrate alimentari e di uomini (c’erano anche carcerati trasferiti a Roma), spinta da un leggero scirocco, Costeggiando l’isola di Creta. Ma all’improvviso, «ecco scatenarsi un vento d’uragano, detto allora Euroaquilone. La nave è travolta dal turbine e, non potendo più resistere al vento, va alla deriva...».

Comincia più o meno così uno dei più vivaci racconti di tempesta marina e di naufragio che l’antichità ci abbia tramandato.
Esso è presente nel capitolo 27 degli Atti degli Apostoli e narra il trasbordo di Paolo sotto custodia da Cesarea Marittima a Roma, ove l’attendeva il processo presso la Cassazione imperiale a cui egli aveva appellato nella sua qualità cli cittadino romano.

Abbiamo voluto invitare a rileggere questo racconto di mare proprio mentre molti lettori stanno migrando verso le spiagge o sono forse già di fronte all’immensa distesa delle acque marine. Il mare nella Bibbia esercita un’attrazione quasi morbosa perché è il simbolo del caos e del nulla che attentano alla terraferma corrodendola.

In Giobbe 38,10-11 il Creatore fissa proprio sulla battigia del litorale il confine invalicabile del mare: «Fin qui giungerai e non oltre.
Qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde». Che il mare abbia questo fascino oscuro è suggerito anche nel celebre romanzo Moby Dick dello scrittore americano Herman Melville (1819-1891) o nei molti romanzi marinati dello scrittore inglese di origine polacca Joseph Conrad (1857-1924): pensiamo solo a Lord Jim, a T!fone e Nosfrotno.

Nell’Antico Testamento, oltre alla deliziosa parabola di Giona e del misterioso cetaceo che lo inghiottisce per tre giorni, c’è un movimentato quadretto di tempesta nel Salmo 107.

Si tratta di una specie di ex voto di un marinaio ebreo che dice il suo grazie a Dio per essere scampato a un fortunale (e lo fa dopo un viaggiatore, un carcerato e un malato). Ecco la sostanza della sua descrizione del pericolo scampato:

«Il Signore parlò e fece levare un vento tempestoso che sollevò le onde. Salivano al cielo, scendevano negli abissi, il respiro veniva meno per il pericolo. Ballavano e barcollavano come ubriachi, tutta la loro perizia era svanita. Nell’angustia gridarono al Signore.., che ridusse la tempesta alla calma; s’acquietarono le onde del mare. Gioirono per la bonaccia ed egli li guidò al porto sospirato» (vedi Salmo 107,23-32).

Uno studioso, Otto Loretz, ha ipotizzato che si tratti di un antico canto di marinai fenici salvati dal loro dio durante una tempesta e poi ripreso da un poeta ebreo. Certo è che, a differenza dei Fenici, gli Ebrei non furono mai un popolo di navigatori, anche a causa della loro costa con rare insenature.
Il mare rimase così un segno tenebroso e negativo, adatto però a descrivere anche l’effetto del vino in un ubriaco: «Ti parrà di giacere in alto mare o di dormire in cima all’albero maestro» (Proverbi 23,34).