Le ammonizioni dell'apostolo Giacomo


Si può leggere il Nuovo Testamento con la matita rosso-blu dell’insegnante di greco? Anche se non è il massimo, lo si può fare e si avrebbe anche qualche sorpresa: la Lettera agli Ebrei usa un greco molto sofisticato; elegante è quello dell’evangelista Luca, raffinata è la Prima Lettera di Pietro, buona — sempre a livello linguistico — è la Lettera di Giuda che abbiamo presentato la scorsa settimana. Per finire l’elenco degli scrittori migliori del Nuovo Testamento manca ancora un nome, Giacomo, autore dell’omonima Lettera (in realtà ha la tonalità dell’omelia), che, pur essendo di chiara matrice giudeo-cristiana, riflette anche forme espressive della cultura ellenistica (ad esempio, la “diatriba” stoica).

Noi, però, ci interesseremo di un’altra bellezza di questa Lettera, bellezza che, comunque, è sostenuta da quella esteriore: si tratta, cioè, della sua dottrina che è formulata con intensità e passione. Facciamo subito un esempio che, tra l’altro, ci permette di illustrare una tesi a prima vista in contrasto con la teologia paolina, quella delle opere giuste (in realtà, si tratta di prospettive differenti, anche se molto marcate).
Il predicatore rappresenta quasi visivamente una scenetta che sembra ripresa dal vivo. Siamo in un’assemblea liturgica cristiana: all’improvviso, un mormorio segnala l’ingresso di un magnate «con tanto di anello d’oro al dito e con uno splendido abbigliamento».

Nella confusione, dietro di lui, s’insinua furtivo un poveraccio in abiti logori. Il presidente dell’assemblea si rivolge con rispetto al primo e lo fa subito accomodare su un seggio di prestigio. Scoprendo, però, anche il misero che si era intrufolato, lo invita brutalmente ad accucciarsi a terra.
Il nostro predicatore (Giacomo il maggiore o il minore, entrambi apostoli, o Giacomo, “fratello” del Signore e vescovo di Gerusalemme?) a questo punto si lascia conquistare dallo sdegno e con foga oratoria denuncia l’ingiustizia e successivamente, con maggior pacatezza, passa appunto al discorso sulla fede che «se non ha le opere, è morta in sé stessa» (si legga l’intero capitolo 2).

Ancora, si provi a leggere l’attacco veemente del capitolo 5: «Ora a voi, o ricchi: piangete e urlate per le sciagure che vi sovrastano! La vostra ricchezza è marcita, il vostro abbigliamento è preda delle tarme... il salario frodato ai lavoratori che hanno mietuto i vostri campi grida e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti!...» (5,1-5). Un ultimo esempio. Stupenda è la pagina del capitolo 3, interamente costellata di immagini folgoranti: il morso dei cavalli, il timone che regge la rotta delle navi nelle bufere, il fuoco di pochi sterpi che dilaga nella foresta, la dose minima di veleno che insidia la vita dell’intero corpo, la sorgente inquinata, i "mostri" biologici (un fico che produce olive o una vite che germoglia fichi!). Il tutto per mettere in guardia contro quel “piccolo organo” che è la lingua, capace di enormi danni, di generare benedizione e maledizione, dolcezza e veleno.