Scorrano come acqua Diritto e Giustizia
C'è un uomo che sta fuggendo su una strada. Alle spalle egli sente l’ansito di un leone che lo insegue. Con terrore vede che da una pista del deserto sta avanzando verso la strada un orso. Ma ecco, più in là, un casolare. Il fuggiasco vi si precipita, sbarra la porta e s’appoggia con una mano alla parete: una serpe velenosa gli si attorciglia alla mano e lo morde.
Così, con questa scena vivacissima ma anche tragica, il primo dei profeti di cui ci sia giunto il messaggio scritto, Amos, descrive l’inesorabile giudizio divino sul male dell’umanità (5,19-20).
Egli era pecoraio e coltivatore di sicomori, nato nell’VIII secolo a.C. a Teqoa, un villaggio contadino a 20 chilometri a sud di Gerusalemme. A quell’orizzonte campestre e agricolo egli attingerà per dar colore e calore alla sua predicazione, centrata soprattutto sulla giustizia. Come egli dirà al sacerdote ufficiale del santuario del re di Israele Amasia, la sua era stata una vocazione né cercata né attesa: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi prese mentre ero dietro al bestiame e mi disse: va’, profetizza al mio popoio Israele» (7,14-15).
Era stato, così, costretto a recarsi nella capitale del regno ebraico del nord, Samana, a entrare nei palazzi, provando disgusto per la dolce vita delle classi alte, per le nobildonne pasciute ed eccitate come “vacche”, le cui labbra carminio egli vede già sanguinanti quando saranno arpionate con ami da pesca, secondo la crudele prassi dei vincitori (4,1-2). Dio non accetta l’alibi di un culto esteriore e dichiara: «Io detesto, rigetto le vostre feste, non gradisco le vostre assemblee. Anche se voi mi offrite olocausti, io non accetto le vostre offerte e le vittime grasse dei sacrifici neppure le guardo.
Lontano da me il fracasso dei tuoi canti, il suono delle tue arpe non lo sopporto! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne!» (5,21-24).
L’ironia è sferzante: Dio volge lo sguardo altrove e non accoglie i riti; musiche e inni sono per lui solo fracasso quando — come accade a Samaria — fuori del santuario, sul mercato «si vende come schiavo il giusto per denaro e il povero per un paio di sandali e si calpesta come polvere la testa dei poveri» (2,6-7).
A più riprese, allora, Amos dipinge l’irruzione divina della storia: icastiche sono le cinque visioni finali del suo libro (capitoli 7-9), un libretto che è comunque tutto da leggere. il giudizio di Dio è raffigurato anche in queste visioni con immagini campestri.
Ecco le cavallette che piombano come uno stormo di cavalieri sulle coltivazioni riducendole a terreno bruciato. Ecco la siccità che è simile a un fuoco che dissecca le sorgenti e la vegetazione. Ecco poi il filo a piombo che un muratore sta tirando su una parete storta che dev’essere perciò demolita e, infine, un canestro di fichi maturi.
Qui il profeta gioca su due parole ebraiche affini nella pronuncia antica, qais, “fico o frutto maturo”, e qes, “fine”.
Ormai incombe la fine e un sudario di morte si stenderà sulle orge, sulle feste, sulle prevaricazioni e sulle ingiustizie. Eppure il filo verde della speranza non si spezza. Dio «rialzerà la capanna caduta di Davide, ne riparerà le brecce e ne risolleverà le rovine, ricostruendola come ai tempi antichi» (9,11). Allora «manderò la fame nel paese, ma non sarà fame di pane né sete di acqua, bensì di ascoltare la parola del Signore!» (8,11).