Nessuno consola un simile dolore


Col grido lacerante e interrogante “Come?" (in ebraico ‘ekah) si apre un poema corale che la tradizione ha attribuito al profeta Geremia, le Lamentazioni, care alla liturgia giudaica e cristiana (Venerdì santo).

Quel “Come?” esprime tutto l’attonito stupore di Israele di fronte al tempio diroccato e devastato, in seguito alla conquista babilonese di Gerusalemme, avvenuta nel 586 a.C. il poema è composto da cinque suppliche: le prime quattro sono ritmate dall’acrostico alfabetico ebraico in successione, mentre la quinta si compone di 22 versetti, tanti quante sono le lettere dello stesso alfabeto.

Questo stampo stilistico esteriore non riesce, però, a raggelare l’incandescenza dei sentimenti, l’ardore del dolore, la veemenza delle immagini tant’è vero che le Lamentazioni hanno ispirato due partiture musicali importanti del Novecento, la Jeremiah Symphony per mezzosoprano e orchestra del musicista americano Leonard Bernstein (1949) e i Threni (termine greco usato per tradurre la parola “Lainentazioni”), composizione per coro e orchestra di Igor Stravinskij (1958).

Naturalmente non possiamo neppure far balenare nelle nostre poche righe la fragranza poetica e l’intensità appassionata di questi canti sconsolati ma non disperati (nella prima si ripete per cinque volte il grido: «Nessuno consola!»).

Ci fermeremo, allora, solo sul primo di questi lamenti che introduce Sion personificata come una vedova desolata e umiliata: «quanti passano per la via fischiano e scrollano il capo sulla figlia di Gerusalemme: è questa la città che dicevano bellezza perfetta e gioia di tutta la terra?» (si dirà poi in 2,15). La ragione di questa obiezione è formulata col linguaggio d’amore: Sion ha tradito il suo Dio lasciandosi affascinare da amanti che l’hanno illusa e abbandonata (gli idoli). Ecco, allora, una sequenza quasi filmica di scene drammatiche.

Da un lato, l’ebreo errante sotto cieli ignoti; dall’altro, le strade di Sion non più animate dalle voci e dai canti; in un’altra scena i nemici spavaldi allineano i deportati; più in là, i capi ebraici fuggono, inseguiti come in una scena di caccia; su un immenso cumulo di macerie «i nemici guardano e ridono della rovina» della città; un’armata si dà al saccheggio di quanto resta, varcando anche lo spazio sacro e invalicabile del tempio per sequestrarvi i tesori; tra le rovine gli ultimi ebrei cercano un tozzo di pane al mercato nero.

Su questa serie di scene tragiche si leva il grido della “vedova” Gerusalemme: «Voi tutti che passate perla via, considerate e osservate se c’è un dolore simile al mio dolore...» (1,12). Ed è a questo punto che entra in scena il Signore che è stato il “vendemmiatore” che pigia l’uva facendone uscire il mosto rosso come il sangue (1,15). L’immagine, che sarà ripresa anche dall’Apocalisse (14,1 8-20), è la sintesi simbolica del giudizio divino sul peccato di Israele. È questa la ragione ultima della tragedia di Sion e il lamento diventa allora un canto di pentimento, ma anche di sottile speranza: «Guarda, Signore, quanto sono in angoscia..., perché sono stata veramente ribelle... Senti come sospiro, nessuno mi consola...!» (1,20-2 1).