Svuotò sé stesso facendosi schiavo


Nelle nostre memorie scolastiche la città macedone di Filippi — che portava il nome del suo fondatore, Filippo II, il padre di Alessandro Magno (IV sec. a.C.) — forse ritorna per la battuta: «Ci rivedremo a Filippi», riferita dallo storico Plutarco nella sua Vita di Giulio Cesare. Là si era svolta nel 42 a.C. la battaglia di Ottaviano e Marco Antonio contro Bruto e Cassio. Là si era recato Paolo ad annunziare il Vangelo di Cristo nel 50 d.C. e a quei cristiani a lui tanto cari aveva indirizzato nel 55-56 una lettera serena e molto affettuosa, pur essendo scritta da un carcere duro, col rischio della morte: «Anche se il mio sangue dev’essere versato in libagione..., io sono felice e lo sono con voi... Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che muoia.
Per me, infatti, il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Filippesi 2,17;l,20-2 1).

Di questo scritto — in cui, come ha detto uno studioso, Jerome Murphy O’Connor, «si sente battere il cuore di Paolo» — noi ora sceglieremo solo una pagina celebre.
Si tratta di un inno incastonato nel capitolo 2 (vv. 6-1 1), forse citazione di un canto battesimale, ritrascritto e adattato dall’Apostolo.
L’elemento fondamentale di questo testo, denso teologicamente e vigoroso poeticamente, è in un contrasto.

Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo “svuotamento” (in greco c’è una parola divenuta significativa nella teologia, kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte in croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini, per poter essere in tal modo vicino e fratello dell’intera umanità. D’altro lato, però, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua, quando Cristo si presenta nello splendore della sua divinità, nell’esaltazione gloriosa che è celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Si ha così, attraverso questo contrasto discensionale - ascensionale, la rappresentazione della morte e della risurrezione, dell’umanità e della divinità di Gesù Cristo. Possiamo a questo punto seguire i due movimenti dell’inno.

Il primo è quello dello “svuotarsi” che Cristo fa della sua gloria divina, divenendo povero e debole uomo ebreo, votato alla crocifissione, considerata allora come una morte infamante. Ecco le parole dell’inno: «Gesù Cristo, pur avendo la condizione di Dio, non volle approfittare dell’essere uguale a Dio, ma svuotò sé stesso, assumendo la condizione di schiavo. Divenuto simile agli uomini e presentatosi in forma umana, umiliò sé stesso, facendosi obbediente fino alla morte di croce» (2,6-8).

Il secondo movimento di questo canto — che, a distanza di due millenni, è ancor oggi usato dalla liturgia — dipinge invece la grande svolta pasquale che parte da quella tragica morte sul Golgota. Per tre volte si ripete il termine “nome” che, nel mondo biblico, designa la persona e la sua dignità. Ebbene, il Cristo glorioso riottiene il suo “nome” divino che lo rivela Signore di tutto l’essere, luminoso nello splendore della divinità.
Ecco le parole dell’inno: «Dio lo ha sovraesaltato, gratificandolo con un nome che supera ogni altro nome, affinché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, terrestri e sotterranei e ogni lingua confessi che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (2,9-11).