SAN PAOLO, FIGLIO DI TRE CULTURE


Non ho mai avuto il coraggio di proporre san Paolo nella nostra galleria di ritratti perché ero consapevole di disegnare solo uno sgorbio, avendo a disposizione soltanto poche righe: si pensi che una delle ultime biografie paoline, la Vita di Paolo di Jerome Murphy O'Connor (Paideia 2003), si sviluppa per ben 472 fittissime pagine.

In questa domenica pasquale ho pensato di evocarlo per accostarlo all'apostolo protagonista della pagina evangelica che la liturgia propone, Tommaso. Il tema, infatti, che li unisce (o divide?) è quello della fede, uno dei nodi capitali del pensiero paolino.
Non traccerò, perciò, un profilo di questo apostolo straordinario, figlio di tre culture, l'ebraica della sua genesi umana e spirituale, la greca per la sua lingua, la romana per la sua identità civile, essendo nato nella colonia imperiale di Tarso in Cilicia, nell'attuale Turchia meridionale. Né cercherò di presentare quell'epistolario che è entrato nel Nuovo Testamento e che quasi ogni domenica èletto nella liturgia cristiana. Vorrei, invece, fermarmi proprio nel cuore della sua teologia che ha la sua splendida formulazione soprattutto nella Lettera ai Romani.

E proprio questa teologia che ha imposto a Saulo-Paolo (ricordiamo che Saul era il nome del primo re di Israele, appartenente - come l'Apostolo - alla tribù di Beniamino) una definizione ambigua, quella di "secondo fondatore del cristianesimo", quasi niettendolo in alternativa a Gesù. In realtà trascrive per un nuovo orizzonte socio-culturale un messaggio che aveva la sua radice nella Pasqua di Cristo. Ebbene, egli intreccia nella sua rappresentazione della salvezza due parole greche decisive, clufris e pistis.

La prima, charis (che è alla base dei nostri "caro", "carezza", "carità"), è la "grazia", ossia l'amore di Dio che per primo si mette sulla strada dell'umanità ferita dal peccato. Scriveva Paolo, citando Isaia: "Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non mi invocavano" (Romani 10,20). In principio c'è, dunque, la luce divina che brilla nell'oscurità della "carne" peccatrice della persona umana. È questo il senso del famoso grido finale del Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos: "Tutto è grazia!".

Ma ecco apparire l'altra parola, pistis, "fede". Essa è simile a braccia aperte che accolgono la chàris, la grazia donata da Dio in Cristo. Illuminato dal Signore, l'uomo deve rispondere con la sua libertà di adesione o di rifiuto. Egli può afferrare la mano divina che si tende a lui per sollevarlo fuori dalle sabbie mobili del peccato. Da questo abbraccio nasce quello che Paolo chiama l'uomo "giustificato", ossia salvato, pervaso dallo stesso spirito divino per cui egli si rivolge a Dio invocandolo come abba, ossia "babbo, padre" (Romani 8,15).

Lasciamo, così, l'Apostolo per eccellenza, immaginandolo in uno dei tanti ritratti a lui dedicati dalla storia dell'arte, spesso in compagnia dell'altro apostolo per antonomasia, Pietro. Proprio come ha fatto il pittore EI Greco (1541-1614) in una celebre tela con gli indimenticabili profili allampanati di questi due testimoni di Cristo, tela ora conservata al Museo nazionale di Stoccolma.