MATTEO, ESATTORE E POI APOSTOLO


La stupenda benedizione che Gesù pronunzia nel Vangelo di questa domenica («Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra...»), definita dagli studiosi “il detto giovanneo” del Vangelo di Matteo (11,25-30) proprio per la sua alta tonalità spirituale, ci spinge a parlare almeno una volta e molto brevemente dell’autore delle pagine evangeliche lette durante le domeniche di quest’anno.

Partirerno simbolicamente dalla mirabile tela di 3,22x3,40 metri che è nella cappella Contarelli della chiesa romana di San Luigi dei Francesi e che Caravaggio dipinse con altre due tra l’anno 1599 e il 1602.

La scena è quella della “vocazione” di Matteo: un Cristo illuminato dalla luce di una finestra posta alle sue spalle punta l’indice — citazione dell’indice del Creatore che sveglia alla vita Adamo nel celebre affresco michelangiolesco della Cappella Sistina — su uno sconcertato Matteo seduto al banco della dogana di Cafarnao. Questo istante, che avrebbe radicalmente mutato la sua vita, è raccontato dall’evangelista in un solo versetto (9,9), nel quale però il nome del protagonista non è Matteo ma Levi, al contrario di quanto avviene in Marco e Luca. Forse egli portava due nomi: quello della tribù di Levi e quello di Matteo (in ebraico “dono del Signore”), come accade ad altri personaggi biblici.

Da esattore delle imposte Matteo-Levi era, dunque, divenuto apostolo di Gesù di Nazaret, ma egli non aveva dimenticato la sua antica professione quando, elencando a coppie i dodici apostoli, aveva evocato: «Tommaso e Matteo il pubblicano», ossia l’esattore (10,3). Tuttavia il suo autoritratto ideale potrebbe essere quello che si legge nelle parole di Gesù, anche se hanno di mira una figura esemplare generica: «Ogni scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (13,52). Infatti Matteo nel suo Vangelo è attento al tesoro delle Scritture di Israele come lo erano gli scribi, cioè gli studiosi della Bibbia e delle tradizioni ebraiche.

Non per nulla nelle 18.278 parole greche del suo Vangelo, distribuite ora in 1.070 versetti e in 28 capitoli, ci si imbatte in almeno 63 citazioni bibliche dirette, 10 delle quali sono introdotte da questa formula che raccorda la vita di Gesù all’Antico Testamento: «Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta...». Sta di fatto che nella tradizione cristiana quello di Matteo è stato il Vangelo più popolare ed è stato considerato anche il primo nonostan te che gli studiosi abbiano poi dimostrato che egli usò come fonte il Vangelo di Marco, preesistente (606 dei 621 versetti del testo di Marco si ritrovano, sia pur rielaborati, in Matteo).

Il suo è, comunque, un Vangelo originale, contrassegnato da cinque grandi discorsi di Gesù che sembrano essere come colonne di un’architettura letteraria che è stata variamente ricostruita dagli esegeti. Al discorso della Montagna, che è un po’ come la Magna charta del cristianesimo (cc. 5-7), seguono il discorso della missione (c. 10), quello in parabole (c. 13), il discorso della comunità ideale (c. 18) e, infine, quello che s’affaccia stilla meta ultima della storia (cc. 24-25). Un testo da rileggere con amore durante quest’anno perché Matteo può essere veramente conosciuto solo perché è testimone e apostolo di Gesù Cristo.