EPAFRODITO VISITA PAOLO IN CARCERE


In questa domenica si inizia la lettura della Lettera di san Paolo ai cristiani della città greca di Filippi, il primo centro europeo in cui era risuonato il nome e il messaggio di Gesù Cristo. Si tratta di uno scritto affettuoso, dato il legame intenso che unì sempre l’Apostolo a questa Chiesa. Infatti, «nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare e di avere, se non voi soli... Adesso ho il necessario e persino il superfluo perché sono ricolmo dei vostri doni.., che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio» (Filippesi 4,15-18).

La lettera è, però, scritta da un carcere duro, attorno al 55-56: Paolo è «in catene», all’interno di un “pretorio” romano (1,7.13), «la casa di Cesare» (4,22), ossia un edificio statale. Egli teme per la sua vita, pur non perdendo fiducia e serenità; anzi, egli coltiva la speranza di uscire presto da questo incubo e di poter riabbracciare gli amati Filippesi: «Sono convinto nel Signore che presto verrò io di persona da voi» (2,24).

Dove sia carcerato, Paolo non lo dice: forse si tratta di una prigionia a Efeso, dopo le tormentate vicende seguite alla sua predicazione in quella città dell’Asia Minore (attuale Turchia costiera), vicende descritte nel capitolo 19 degli Atti degli Apostoli.
Ma da questa lettera noi facciamo emergere un cristiano il cui nome attesta le sue origini pagane, Epafrodito, «nostro fratello, mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità» (2,25). Infatti, i cristiani di Filippi avevano delegato proprio Epafrodito a portarsi da Paolo prigioniero recandogli doni per sostentano, con tutto quell’affetto che essi provavano per il loro maestro nella fede (4,18).

Ma, una volta giunto presso l’apostolo Paolo, a quanto si riesce a dedurre dalla lettera, Epafrodito era stato colpito da una malattia piuttosto seria cne raveva condotto fino alle soglie della morte. La notizia aveva costernato i Filippesi. Paolo, però, proprio con questo suo scritto vuole dare serenità a loro, assi- curando che presto il comune amico, finalmente ristabilito, sarebbe rientrato a Filippi. Ma leggiamo le parole dell’Apostolo: «Per il momento ho creduto necessario rimandare a voi Epafrodito... Lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. L’ho, quindi, mandato con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. Accoglietelo, dunque, nel Sigiiore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui, perché ha rasentato la morte per causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me» (2,25-30).

Di Epafrodito non sappiamo altro. È probabile che sia stato proprio lui a recare la Lettera ai Filippesi, riempiendoli di gioia non solo per il suo ritorno ma anche per le parole che Paolo aveva indirizzato a questa comunità. Uno studioso dell’Apostolo, Jerorne Murphy-O’Connor, scriveva infatti che «in questa lettera si sente il cuore di Paolo», molto sensibile all’amicizia.