I BENIAMINITI E IL “RATTO DELLA VIGNA”


Quella che ora proponiamo è una figura collettiva: si tratta, infatti, dei membri di una piccola e battagliera tribù di Israele, quella dei Beniarniniti, che aveva come capostipite Beniamino (‘figlio della mano destra”, quindi “della fortuna” ma anche, secondo l’accezione geografica, “meridionale”), ultimo figlio del patriarca Giacobbe e della moglie amata Rachele, che morirà dandolo alla luce. Li ricordiamo in questa domenica perché sia il canto iniziale di Isala (5,1-7) sia la parabola di Matteo (21,33-43) hanno al centro una vigna, un elemento che fungerà da sfondo anche per una parte dell’evento che riassumeremo.

Sì, il nostro è un riassunto: bisognerebbe, infatti, leggere le terribili e tragiche pagine finali del libro dei Giudici (capitoli 19-21) per seguire una vicenda che comincia nell’oscurità notturna di un villaggio a 8 chilometri a nord di Gerusalemme, Gabaa (“collina”), nel territorio della tribù di Beniamino. Qui si consuma uno sconcertante stupro di gruppo nei confronti della seconda moglie (“concubina”) di un levita di passaggio: dopo un’intera notte di violenze da parte del branco, la donna riesce a raggiungere con la mano la so glia della casa ove il marito era ospitato e là muore.

Il levita, allora, di fronte a un delitto così grave che viola la sacralità dell’ospite, compie un gesto simbolico terrificante: divide il corpo della moglie in dodici pezzi che invia, come lettera viva e sanguinante, a tutte le tribù ebraiche perché vendichino
questa infamia. Le tribù si riuniscono in assemblea a Mizpa, un centro dell’area di Beniamino, e decidono di indire una guerra di sterminio nei confronti di quella tribù che si era rifiutata di consegnare i colpevoli di quel delitto. Scoppia, così, una sorta di guerra civile che si trascina per un certo tempo perché i Beniaminiti sono abili e fieri combattenti, dotati tra l’altro di un corpo di 700 frombolieri, ambidestri infallibili.

Alla fine, però, sono costretti a cedere e la tribù si riduce a un pugno di uomini che si rifugiano in zone desertiche, tra forre e dirupi, vivendo come selvaggi. È a questo punto che Israele si pente di aver cancellato una delle dodici tribù, rompendo l’armonia e l’unità originaria del popolo. Ci sarebbero ancora quei latitanti, ma le tribù ebraiche si erano anche impegnate a non dare mai più in moglie una loro donna ai Beniaminiti. Si cerca, allora, una via d’uscita che non violi il giuramento. Entrano, così, in scena le vigne e la festa molto popolare della vendemmia, che aveva come centro il santuario di Silo. La soluzione sarà una specie di anticipazione del ratto delle Sabine.

Si faranno correre e danzare alcune fanciulle di Israele, come prevedeva il rituale della festa: i Beniarniniti, nascosti tra le vigne, avrebbero rapito ciascuno una di queste ragazze, e, così, avrebbero potuto far continuare la discendenza della loro tribù. «I figli di Beniamino fecero a quel modo: si presero mogli, secondo il loro numero, fra le danzatrici; le rapirono, poi partirono e tornarono nel loro territorio, riedificarono le loro città e vi stabilirono la dimora» (Giudici 2 1,23). Gli altri Israeliti non avevano, così, violato il loro giuramento, anche se non possiamo certo definire esemplare il loro comportamento, in un contesto socio-culturale che però non rispettava la dignità della donna, come è evidente in tutto il racconto. Tuttavia paradossalmente fu anche per questa vicenda finale che tra i discendenti della tribù di Beniainino, oltre al re Saul, si potrà annoverare l’apostolo Paolo (Filippesi3,5)