L’ASTUZIA FEMMINILE Dl NOEMI


«Non malltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido, la mia collera si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani». Per due volte in questa frase, tratta dall’odierna prima lettura della liturgia (Esodo 22,21-26), risuona la parola “vedova”, in ebraico ‘almanah. Essa è posta — come l’orfano — sotto la diretta tutela divina. Si legge, infatti, nel Salmo 68(67),6 questa invocazione rivolta al Signore: «Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora». Vedove e orfani nella società orientale antica erano senza go’el, il “difensore” giuridico: Dio stesso entra, allora, in scena per tutelare queste due categorie di persone. Ogni attentato nei loro confronti sarà, dunque, un delitto anche religioso, perché coinvolgerà il Signore stesso.

Presentiamo, allora, in questa domenica una delle varie figure di vedove bibliche: anzi, nel Nuovo Testamento, esse riceveranno un vero e proprio statuto ecclesiale (1 Timoteo 5,3-16). Si tratta di Noemi, in ebraico Na’omi, “la mia grazia, amabilità”, una delle figure più intense di quel piccolo gioiello letterario e spirituale che è il libretto di Rut.

La sua è una storia di stenti e di povertà che inizia con un’emigrazione: suo marito Elimelek, che risiede a Betlemme, coi suoi due figli maschi è senza lavoro in un tempo di carestia; decide, allora, di varcare il Giordano e di recarsi all’estero, nella regione di Moab. Ma la sorte si accanisce su questa famiglia: giunto in quella terra, Elimelek muore. Tuttavia c’è per la vedova Noerni il sostegno dei due figli, dai nomi che sono già tutto un programma di sventure: l’uno si chiamava Maclon, “malato, debole” in ebraico, e l’altro Chilion, “debolezza”. Sta di fatto che, dopo essersi accasati con due donne moabite, entrambi muoiono, lasciando sole le tre vedove.

A questo punto Noemi sceglie di ritornare in patria, a Betlemme, inducendo le nuore a rimanere coi loro familiari. Ma, se una di esse di nome Orpa opta per la sua famiglia d’origine, l’altra, Rut, (“sazietà”), non ha esitazioni: «Non insistere con me», dice alla suocera, «perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu, andrò anch’io; dove ti fermerai, mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole se altra cosa che la morte mi separerà da te» (Rut 1,16-17).

È commovente questo amore filiale di una nuora nei confronti della suocera. Esso riceverà una benedizione divina. Giunte a Betlemme, vivranno inizialmente di carità: infatti, secondo la prassi biblica, la spigolatura era un mezzo per sopravvivere usufruendo della più o meno generosa liberalità dei proprietari terrieri durante la mietitura o la vendemmia. Sarà Noemi a guidare con una certa astuzia femminile la nuora non solo a ottenere un po’ di grano da un ricco possidente, lontano parente di suo marito, un certo Booz, ma anche a istruirla sul modo per aprire un varco nel suo cuore, fino a conquistarlo completamente in una scena notturna di grande emozione e poesia.

Non mancheranno anche in questo caso ostacoli da superare, ma alla fine l’approdo della storia — che invitiamo a leggere integralmente nei quattro deliziosi capitoli del libro di Rut — è festoso. Rut sposa Booz e la scenetta finale è quella di nonna Noemi che stringe tra le braccia il nipotino Obed, tra le congratulazioni delle donne betlemite: «Noemi prese il bambino e se lo pose in grembo e gli fu nutrice. E le vicine dissero: È nato un figlio a Noemi!» (4,16-17). Questo bambino, stando alla genealogia finale del libretto di Rut, sarà il nonno del re Davide, che avrà quindi come bisnonna una straniera, Rut la moabita.