DANIELE INTERPRETA I SOGNI DEL RE


Si è soliti dire che le parole frernenti che il Battista pronunzia nel Vangelo sono di taglio apocalittico, non solo per le immagini forti, ma anche per il rimando a una visione teologica che pure farà capolino nel linguaggio di Gesù. Ora, la letteratura biblica “apocalittica” ha un suo punto di riferimento capitale nel Libro di Daniele. È, questo, un nome portato anche da un eroe leggendario conosciuto nel mondo indigeno cananeo della Terra Santa: Danil era un difensore di vedove e di orfani (non per nulla il significato del termine è: “Dio è giudice”) e il profeta Ezechiele lo ricorda accanto a Noè e Giobbe (14,14). Noi ora, però, ci soffermeremo brevemente sul Daniele che entra in scena nell’omonimo libro profetico-apocalittico.

Si tratta di un ebreo esule a Babilonia, straordinario interprete di sogni, sottoposto a prove terribili (la fossa dei leoni) da parte del potere oppressore, ma liberato ed esaltato dal Signore. Ora, anche se l’ambientazione è quella dei tempi del re babilonese Nabucodonosor e dei suoi successori (VI secolo a.C.), in realtà l’epoca a cui si rimanda allusiva- niente è posteriore, è quella della rivolta dei Maccabei (II secolo a.C.) contro il dominio paganeggiante della Siria ellenistica. Daniele entra in scena con altri giova- iii ebrei e sfida ilpotere imperiale, diventando un modello di fedeltà alle tradizioni dei padri.

Il libro che reca il suo nome e che è stato collocato tra i profeti “maggiori” (con Isaia, Geremia ed Ezechiele) è affidato sostanzialmente a due generi letterari principali. Da un lato, si hanno “gli atti dei martiri”, ossia le testimonianze coraggiose degli Ebrei fedeli con narrazioni spesso emozionanti come quelle delle prove del fuoco e dei leoni o del misterioso banchetto notturno del re Baldassar. Questi racconti occupano i primi sei capitoli del libro. D’altro lato, si hanno “le visioni”, cioè le rivelazioni divine interpretate da un angelo, presenti nei capitoli 7-12.

Esse sono impressionanti, spesso popolate di mostri e figure enigmatiche, segni del potere oppressivo che domina la storia. La concezione apocalittica del mondo è, infatti, divisa tra terra e cielo in modo netto e contrapposto, quella dell’umanità in bene e male, quella della storia tra un presente dominato da Satana e il futuro retto dal Signore coi giusti. Particolare rilievo in questa sequenza di visioni sperimenta- te da Daniele è quella che ha al centro il “Figlio dell’uomo”, il quale riceve un potere universale ed eterno da parte di un Vegliardo, raffigurazione simbolica dell’Eterno, ossia del Signore.

Chi fosse questo “Figlio dell’uomo” è oggetto di discussione: forse per l’autore del libro incarnava l’israele fedele, glorificato da Dio; ma la tradizione giudaica e cristiana successiva l’ha interpretato come la figura del Messia. Gesù stesso a più riprese — e in particolare durante il processo davanti al Sinedrio (Matteo 26,64: «D’ora innanzi vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio e venire sulle nubi del cielo») — lo ha applicato alla sua persona e alla sua missione. Concludiarno segnalando un aspetto curioso presente nel tessuto stesso dell’opera di Daniele.

Il volume così com’è giunto a noi è in pratica scritto in tre lingue: l’ebraico nei capitoli I e 8-12, l’arainaico, la lingua allora dominante, da 2,4 fino a 7,28, mentre in greco sono stati aggiunti i passi di 3,24-90 e dei capitoli 13-14, che comprendono anche la celebre storia di Susanna da noi già evocata in passato. La parte composta in greco è definita come “deuterocanonica”, ossia accolta nel Camione delle Sacre Scritture in epoca successiva, e non è entrata a far parte del Canone ebraico e protestante della Bibbia.