"Universalismo"

Il signore disse a Giona «Va' a Ninive, la grande città, e annunzia loro quanto di dirò!»...........
i cittadini di ninive credettero a dio. (Giona 3,1-5)



La prima impressione che si ha aprendo l’Antico Testamento è quella di una religione particolarista: la stessa “elezione” di Israele come popolo di Dio sembra escludere le altre nazioni che spesso sono bollate come nemiche e idolatre. Effettivamente, ci sono pagine aspre di battaglie e di massacri perpetrati ai danni dei nemici del popolo ebraico (il cosiddetto herem o “anatema”, la strage santa); gli oracoli prof etici “contro le nazioni” sono durissimi. Non bisogna mai dimenticare che la Rivelazione biblica è storica: la parola e l’azione divina si innestano nel terreno delle vicende umane, che sono striate di sangue e di violenza.

L’approdo a cui Dio vuole condurre il suo popolo è, però, ben diverso e già il Primo Testamento lo dimostra. L’elezione non è un privilegio ma una missione, e il profeta Giona — sia pure a fatica — lo comprende quando vede Ninive, la capitale degli Assiri, la città nemica per eccellenza, credere nel Signore e convertirsi. Già la vocazione di Abramo aveva un compito universalistico: «In te si diranno benedette tutte le nazioni della terra» (Genesi 12,3). I profeti allargheranno l’orizzonte e vedranno i popoli salire a Sion per ascoltare la parola divina: «Forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo» (Isaia 2,4). il Signore pronunzierà, allora, questa benedizione: «Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità» (Isaia 19,25).

Anzi, si comincerà ad ammettere nel tempio gli stranieri che aderiscono alla parola del Signore: «Li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare, perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli... Anche tra essi mi prenderò sacerdoti e leviti, dice il Signore» (Isaia 56,7; 66,21). Si schiuderà attraverso queste parole l’orizzonte che il Nuovo Testamento esalterà, aprendo la comunità cristiana anche ai pagani, sia pure con alcune resistenze comprensibili nella mentalità da cui i primi cristiani provenivano.

Sarà soprattutto Paolo a farsi l’alfiere di questo universalismo con il suo impegno missionario attraverso le varie regioni dell’Impero romano. Le sue parole sono illuminanti: «Cristo è la nostra pace, lui che ha fatto dei due un popo1o solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia... Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Efesini 2,14; Galati 3,28). Una nota a parte. L’antica legislazione biblica aveva adottato nei confronti dello straniero ospite un atteggiamento di rispetto, assegnandogli gli stessi diritti del cittadino ebreo. Anch’egli aveva diritto al riposo sabbatico e non doveva essere oppresso, in memoria dell’esperienza amara vissuta da Israele in Egitto. Illuminante è la norma del Levitico: «Allo straniero dimorante tra voi nel vostro paese non farete torto, lo tratterete come colui che è nato tra voi. Tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (19,33-34).



LE PAROLE PER CAPIRE

PROSELITI - Il termine di origine greca significa “colui che si accosta” ed era applicato a quei pagani che “si accostavano” alla fede ebraica quando gli Israeliti, con la diaspora, si erano diffusi in varie nazioni. Essi erano chiamati anche “timorati di Dio”. Gli Atti degli Apostoli (capitolo 10) menzionano tra costoro anche il centurione romano Cornelio, convertito da Pietro al cristianesimo.

GENTILI - È il vocabolo con cui si traduce il greco éthne, usato nel Nuovo Testamento per definire i pagani. Esso deriva dal latino gentes, “genti, nazioni” (in ebraico la parola equivalente, segnata da una nota negativa, era gojim).