LA “SOFFERENZA”

Non ha forse un duro lavoro l’uomo sulla terra?...
Notti di dolore mi sono state assegnate.

(Giobbe 7,1.3)



Il dolore non è mai solo una questione fisica o psicologica; è sempre il simbolo della nostra realtà di creature limitate, caduche, pervase dal male. È per questo che la Bibbia è tutta striata dalla sofferenza, a partire dalla Genesi ove s’intrecciano temi coordinati e distinti come libertà, colpa, dolore e morte. C’è, poi, il lamento orante del Salterio: quasi un terzo dei Salmi è una supplica di infelici che mettono davanti a Dio tutta l’iridescenza oscura del male che li attanaglia. C’è la voce altissima di Giobbe che nel soffrire, attraverso un tragico itinerario di protesta, giunge però all’incontro con Dio e alla scoperta di un progetto trascendente in cui ha una collocazione anche il mistero del dolore.

Entra poi in scena il misterioso Servo del Signore, «uomo dei dolori» cantato da Isaia: nel suo soffrire innocente egli rivela un seme di fecondità e non di morte, che riesce a diramarsi nel deserto della storia. Ci sono, quindi, tanti approcci diversi a questa sorta di cittadella invalicabile che è il dolore umano, cittadella assediata da sempre da tutte le culture che ne hanno fatto soprattutto una questione religiosa, come supponeva già il filosofo greco Epicuro che s’interrogava così: «Se Dio vuoi togliere il male e non può, allora è impotente. Se può e non vuole, allora è ostile nei nostri confronti. Se vuole e può, perché allora esiste il male e non viene eliminato da lui?».

Cristo s’interessa radicalmente della sofferenza, tant’è vero che il Vangelo di Marco è per oltre un terzo una serie di racconti di guarigioni di malati. Tuttavia, come diceva il poeta francese Paul Claudel, «Dio è venuto non a spiegare la sofferenza, è venuto a riempirla della sua presenza». Infatti, attraverso il Figlio suo, egli è entrato nella carne dell’uomo, divenendo uomo, condividendo iJ nostro limite, assumendolo in sé. Non per nulla egli sperimenta tutta la gamma del dolore umano: la sofferenza fisica, la solitudine dagli amici, la paura di morire, il silenzio di Dio e, alla fine, il diventare cadavere nella morte.

Ma proprio perché Cristo è il Figlio di Dio, attraversando il dolore e la morte, ha lasciato in essi un seme di divinità, di eternità. L’ingresso del Figlio di Dio nella prigione del nostro male segna una svolta: egli non elimina la nostra condizione di creature fragili e limitate, ma apre la porta di quel carcere per condurci nella comunione dell’eternità beata con Dio. È ciò che accade con la sua risurrezione gloriosa. La meta ultima della vicenda umana non è, allora, nel gorgo oscuro del nulla e del non- senso, ma è in un’alba di Pasqua universale, destinata a tutte le creature e cantata dall’Apocalisse. Nella città di Dio «non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate» (21,4).

Durante il cammino della storia, il Signore «raccoglie nell’otre suo le nostre lacrime: non sono forse scritte nel suo libro?» (Salmo 56,9). Ma egli ci vuole condurre, attraverso la vita divina a noi donata da Cristo, a quell’orizzonte luminoso ove «Dio tergerà ogni lacrima dai nostri occhi» (Isaia 25,8) e il dolore e la morte saranno vinti per sempre.



LE PAROLE PER CAPIRE

AZAZEL - Probabilmente era il nome di un demonio, che incarnava in sé il male di Israele. Nel giorno della solennità del Kippur (“espiazione”) il sommo sacerdote confessava i peccati del popolo trasferendoli ritualmente su un capro, detto appunto “di Azazel”, che veniva poi fatto fuggire nel deserto perché là scomparisse come il peccato di Israele (Levitico 16).

LUCIFERO - Questo titolo suggestivo (“portatore di luce”, come la stella dell’alba) era attribuito al re di Babilonia. Isaia (capitolo 14), però, ricorda che l’illusione di onnipotenza scaraventò questo re dal cielo negli inferi e su questa base sì sviluppò il tema della caduta degli angeli ribelli, guidati da Satana-Lucifero (Luca 10,18).