LA “RETRIBUZIONE”

Il lebbroso sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà da solo, abiterà fuori dall’accampamento.

(Levitico 13,46)



Delitto e castigo: tutti ricordano questo binomio che funge da titolo a uno dei più celebri romanzi che lo scrittore russo Fiodor Dostoevskij pubblicò nel 1866. Esso sintetizza un principio teologico che è affermato da molte religioni, sia pure con accenti diversi: a ogni colpa corrisponde una punizione che spesso viene identificata in una malattia o in una sventura, e a ogni atto di giustizia un premio. Anche l’Antico Testamento propone in molte sue pagine questa prospettiva che si rivela come un tentativo ottimistico per cercare di spiegare ed eliminare il male. Significativa, al riguardo, è la domanda che rivolgono a Gesù i suoi discepoli di fronte al cieco nato: «Chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?» (Giovanni 9,2).

Il caso in questione sembrava, infatti, mettere in crisi il principio sopra citato, chiamato dagli studiosi “teoria della retribuzione”, e i rabbini di allora cercavano di risolvere il dilemma o ipotizzando che il feto stesso avesse peccato mentre era nel grembo della madre o che quest’ultima, peccando durante la gestazione, l’avesse “infettato” moralmente. Soluzioni paradossali e assurde che cercavano di salvare a tutti i costi un principio di giustizia che in sé può avere un suo valore, ma che nella realtà risulta spesso smentito e non applicabile automaticamente.

Il corpo centrale del libro di Giobbe, col serrato dialogo tra il grande sofferente e gli amici, è appunto una continua
contesa tra questi ultimi — che incarnano i vari teologi del tempo, assertori convinti della teoria della retribuzione — e Giobbe che ne sottolinea le sconcertan ti divergenze con la realtà: non è forse vero che spesso sono proprio i perversi e i disonesti ad avere successo? Vanamente si cercava di replicare affermando che la punizione per i delitti può essere dilazionata nella discendenza, considerata la solidarietà generazionale sostenuta dalla visione biblica dell’umanità. Mala risposta di Giobbe era altrettanto netta: «Che Dio la faccia pagare piuttosto al peccatore stesso e lo senta, veda con i suoi occhi la rovina!... Che cosa gli importa del suo casato dopo la sua morte, quando il numero dei suoi mesi è finito?» (Giobbe 2l,19-21).

Certo, l’esigenza che ci sia una retribuzione giusta per il bene e per il male è sacrosanta, ma non dev’essere risolta in maniera semplificata e illusoria. Nella Bibbia si fa strada l’idea che essa non sia da cercare nella storia presente, ma in un “oltre” definitivo, quando Dio ricomporrà in armonia tutto l’essere. Così nel libro della Sapienza si afferma che «il salario per la santità e la ricompensa delle anime pure» avverrà nell’immortalità che si apre nell’oltrevita, mentre il Nuovo Testamento scandisce il giudizio finale sulla base della scelta della carità verso il prossimo: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno... Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno...» (Matteo 25,31-46).



LE PAROLE PER CAPIRE

LEBBRA - Per la teoria della retribuzione, secondo la quale a ogni malattia corrispondeva una colpa, la lebbra — considerata particolarmente infettiva e quindi “isolante” — era riterluta frutto di un delitto grave e il lebbroso era come uno “scomunicato” e giudicato “immondo” (Levitico 13). È, allora, sconcertante il fatto che Gesù “tocchi” i lebbrosi assumendo su di sé la loro sofferenza e il loro male.

BARBA - Era segno di virilità, vitalità e bellezza. Per questo, tagliare la barba era un gesto di umiliazione e di disonore (2 Samuele 10,4) e coprirla era un segno di lutto o di dolore (il lebbroso appunto si doveva velare la barba).