IL “PADRE”

Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato. (Giovanni 6,44)



Il termine “padre” ha innanzitutto una valenza sociale e psicologica. Da un lato, infatti, incarna l’asse portante di una famiglia, soprattutto in una società di stampo patriarcale; d’altro lato, come ci ha insegnato la psicologia moderna, delinea una trama di rapporti complessi nei confronti del figlio, dando il via anche a conflitti e a tensioni, e non solo a vincoli di profonda intimità. La nostra attenzione ora si rivolge, invece, al valore teologico che questo vocabolo acquista, certamente partendo dalla base “psi- co-fisica” della generazione padre-figlio. È noto, infatti, che in tutte le culture il titolo di “padre” viene assegnato anche a Dio.

Così fa pure l’Antico Testamento e non solo nei confronti del re davidico (Salmo 2,7), ma di tutti gli Israeliti, «i figli del Dio altissimo» (Ester 8,12): «Come un padre ha pietà dei suoi figli, così il Signore ha pietà di quanti lo temono... Il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto... Non è forse Israele un figlio caro per me, un fanciullo prediletto?... Quando Israele era giovinetto, io l’ho amato e dall’Egitto ho chiamato mio figlio...» (Salmo 103,13; Proverbi 3,12; Geremia 31,20; Osea 11,1). La preghiera dell’ebreo fedele è, allora, piena di intimità filiale: «Signore, tu sei nostro padre... Signore, padre e Dio della mia vita... Signore, tu sei mio padre... Non abbiamo forse tutti noi un solo padre?» (Isaia 64,7; Siracide 23,4; 51,10; Malachia 2,10).

Gesù non fa che allinearsi a questa tradizione, peraltro molto diffusa nelle pagine bibliche, imprimendo a essa un impulso nuovo. Infatti, si configura innanzitutto un legame unico tra Cristo e il Padre suo celeste: «Dio nessuno l’ha mai visto; proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). Per questo, Gesù usa ripetutamente l’espressione: “Padre mio” per indicare un rapporto speciale e specifico di paternità-filiazione intercorrente tra sé e Dio, tant’è vero che l’evangelista Giovanni ricorrerà a due vocaboli greci distinti per designare il Figlio Gesù, hyiòs, e i “figli” di Dio che siamo noi, tékna. Anche san Paolo, che riconosce un nostro essere “figli”, ricevuto nel battesimo, ricorre però per il cristiano all’idea giuridica di hyiothesia, “la filiazione adottiva” (Romani 8,15).

Anche i cristiani, quindi, hanno Dio come padre, «che ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito... non per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Giovanni 3,l6-1 7). Il Padre celeste è prodigo d’amore nei confronti della sua creatura, anche quando essa lo tradisce, gli si ribella e lo delude: la parabola del “figlio prodigo” ne è la rappresentazione più alta (Luca 15,11-32). La missione del Figlio, unito intimamente al Padre divino — «Io e il Padre siamo una cosa sola... Il Padre è in me e io nel Padre» (Giovanni 10,30.38) —,è quella di rivelare e donare la parola e l’amore paterno di Dio a tutti quanti i suoi figli. Perciò, «tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, egli ve lo concederà» (Giovanni 15,16; 16,23).

La preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli è appunto il “Padre nostro”, che ha sottesa quell’invocazione aramaica di intimità filiale cara a Gesù, abba’ossia “papà, babbo”. È «lo Spirito del Figlio Gesù che nei nostri cuori grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se figlio, sei anche erede per volontà divina» (Galati 4,6-7). Raccogliamo, allora, l’appello del Figlio Gesù: «Siate perfetti/misericordiosi come perfetto/misericordioso è il Padre vostro che è nei cieli» (Matteo 5,48; Lu ca6,36).



LE PAROLE PER CAPIRE

MANNA - Di per sé è una sostanza resinosa che cola da una particolare tamerice presente nel Sinai, in seguito alla puntura di un insetto. I beduini la considerano commestibile. Per la Bibbia — che ne spiega popolarmente il nome con l’ebraico: man hù?, “Che cos’è?” — è il segno dell’amore paterno di Dio che nutre il suo popolo nel deserto. Giovanni ne fa il simbolo dell’Eucaristia (6,31-33.58).

MORMORARE - Il verbo è usato per definire la ribellione di Israele in marcia nel deserto (Esodo 16,2; Numeri 11,1; 14,27) e la reazione dell’uditorio quando Gesù parla della sua carne e del suo sangue come cibo e bevanda (Giovanni 6,41-43). In pratica, è sinonimo di incredulità.