La preghiera della sera
 

Il 2 febbraio il calendario ci ricorda la festa della Presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme, sulla scia di una bella pagina dell'evangelista Luca (2,22-38), pagina che verrà letta nella liturgia di quel giorno. Ora noi vorremmo fermarci sul canto che è pronunziato in quell'occasione da Simeone, «uomo giusto e timorato di Dio» (2,25.35) che reca sulle braccia il piccolo Gesù, così da essere chiamato dalla tradizione orientale Theodòkos, cioè «colui che accoglie Dio» nelle sue braccia.
Egli raffigura l'attesa messianica dell'Israele fedele che riconosce in Gesù, presentato al tempio per essere riscattato come tutti i primogeniti ebrei (considerati appartenenti a Dio, secondo Esodo 13), l'attuazione della sua speranza e attesa. Simeone pronunzia anche un severo oracolo sulla storia futura che sarà quasi lacerata dalla presenza di Cristo: «Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori» (2,34).
Ma il suo canto è dolce: è il Nunc dimittis, così chiamato dalle prime parole della versione latina della Vulgata di san Girolamo.
Si dice che il musicista Orlando di Lasso (1530-1594) l'abbia messo in musica ben 12 volte (da 4 a 7 voci)! «Ora lascia, Signore, che il tuo servo / vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza, / preparata da te davanti a tutti i popoli, / luce per illuminare le genti / e gloria del tuo popolo Israele» (2,29-32).
Questo breve salmo cristiano fin dal V secolo, è divenuto la preghiera serale del cristiano, il cantico del Compieta, l'orazione liturgica serale.
Anzi, uno studioso, Douglas R. Jones, ha ipotizzato che fosse il canto funebre per un fedele giusto, messo in bocca a Simeone. In questo spirito un importante romanziere vittoriano inglese, Anthony Trollope (1815-1882), ha posto sulle labbra di un suo personaggio, il protagonista di The Warden ("Il custode), mister Harding, sacerdote e violoncellista ormai vecchio e invalido, proprio le parole del canto di Simeone.
Egli si trascina fino allo strumento chiuso nell'armadio e, abbandonandosi alla «follia delle sue vecchie dita», tocca le corde traendone «un lagno bassissimo, di breve durata, a intervalli». Riesce, così, a capire e a dirsi che la sua lunga vita ha compiuto il suo cerchio e allora «con un dolce sorriso» invoca: «Signore, ora lascia che il tuo servo vada in pace!». In realtà l'inno di Simeone non è un addio crepuscolare e malinconico, bensì un saluto festoso all'alba messianica che sta per schiudersi e che è incarnata in un bambino, Gesù di Nazaret.