L'offerta del figlio amato
 

Uno dei libretti più usati per mettere in musica (nella forma dei cosiddetto “oratorio”) l’episodio dei capitolo 22 della Genesi è stato quello approntato dal nostro Metastasio (1698-1782) eloquentemente intitolato Isacco figura dei Redentore (lo usarono, ad esempio, i musicisti Niccolò Jommelli e Giuseppe Torelli, ma già Alessandro Scarlatti e Giacomo Carissimi avevano messo in musica la vicenda, sia pure su altri testi).
Quel titolo ci fa capire l’interpretazione cristiana della scena: Isacco è figura di Cristo che viene sacrificato ma risorge.
Scriveva l’autore della lettera agli ebrei: «Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e, proprio lui che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio... Egli pensava, infatti, che Dio è capace di far risorgere anche i morti: per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (11,17.19).
Ma l’autore sacro quale significato attribuiva a livello di base all’episodio? Il filo conduttore, intuito già da san Paolo nella Lettera ai Romani (capitolo 4), è quello della fede pura e “nuda”.
Essa non deve avere altri appoggi se non nella parola divina.
È una fede che conosce anche il baratro del mistero, del silenzio di Dio: il terribile cammino di tre giorni affrontato da Abramo per raggiungere la vetta della prova diventa il paradigma e il modello esemplare di ogni itinerario di fede.
È un percorso tenebroso e combattuto, accompagnato solo da quell’iniziale implacabile comando:
«Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco», si noti l’insistenza sugli affetti umani, (‘e offrilo in olocausto!» (Genesi 2 2,2).
Poi il silenzio. Silenzio di Dio, silenzio di Abramo, silenzio del figlio che un’unica volta, con ingenuità straziante, intesse un dialogo che è segnato proprio dagli affetti umani, l’unica sicurezza davanti a un Dio così crudele: «Padre mio!... Eccomi, figlio mio!... Dov’è l’agnello per l’olocausto?... Dio stesso provvederà, figlio mio!» (22,7-8).
Poi, ecco l’azione sacrificale, l’agedah, la “legatura” sull’altare del monte Moria, un gesto che la tradizione giudaica userà come simbolo per il martirio delle vittime delle persecuzioni antisemite. «Abramo costruì l’altare sopra la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio» (22,9-10).
C’è un’attesa spasmodica che viene risolta dal grido di Dio che spezza finalmente il suo silenzio, chiamando, come in apertura di racconto, il patriarca per nome: «Abramo, Abramo!».
Solo lui in quel momento poteva trattenere Abramo dalla sua fede obbediente e totale.
La narrazione è, quindi, la raffigurazione della fede ricondotta al suo stadio più puro, assoluto e drammatico, una fede priva di ogni sostegno umano, razionale e religioso.
Eppure la prova non era cieca, aveva un suo valore.
È ciò che vedremo in una prossima puntata della nostra rubrica.