Elia rapito dalla terra a Dio
 

«Mentre Elia ed Eliseo camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due.
Elia salì sul turbine verso il cielo. Eliseo guardava e gridava: “Padre mio, padre mio, cocchio d’Israele e suo cocchiere”.
E non lo vide più» (2 Re 2,11-12).
All’ascensione del Cristo risorto al cielo accostiamo quella del profeta Elia nella gloria celeste, secondo una scena biblica che ha da sempre colpito l’arte e non solo la teologia.
Tra le numerosissime riprese artistiche ne vorrei citare solo due, quella della porta lignea di S. Sabina a Roma (430 circa) col cocchio di fuoco divenuto una biga, mentre un angelo strappa il profeta verso Dio, e quella della tela settecentesca di Giovanni Battista Piazzetta, conservata alla National Gallery di Washington, di forte tensione mistica.
Bisognerebbe, poi, rimandare allo splendido oratorio Elia che Felix Mendelssohn Bartholdy fece eseguire nel 1847 al dramma Elia che il filosofo ebreo Martin Buber pubblicò nel 1963 e che è stato tradotto in italiano dall’editore Gribaudi nel 1998:
in quest’opera il profeta entra nell’eternità senza gustare la morte per essere il messaggero dell'eterna presenza di Dio nell'uomo giusto.
Ora, nell'ascensione di Elia al cielo c’è la testimonianza della fede dell’Israele biblico nell’oltrevita glorioso del giusto che non precipita nello sheol, cioè nell’area sotterranea, gli inferi, a cui approdavano tutti gli uomini.
Chi durante l’esistenza terrena ha vissuto in comunione profonda con Dio, «ha camminato con lui», come si dice del patriarca Enoch, «preso» come Elia da Dio dopo la morte (Genesi 5,24), ascende dalla tenebra della morte e dello
sheol - inferi alla luce celeste. Chi vive quaggiù in comunione con Dio, l’eterno per eccellenza, ne è quasi irradiato e trasfigurato.
Si tratta di un’osmosi di vita su cui la morte non ha potere: «Non abbandonerai, o Signore, la mia vita nello sheol, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi mostrerai il sentiero della vita, gioia piena davanti al tuo volto, delizia alla tua destra per sempre» (Salmo 16,10-11). E questo avviene perché «la giustizia è radice di immortalità» (Sapienza 1,15 e 15,3).
Scriveva uno studioso della Bibbia, Antonin Causse: «L’uomo che ha fatto una volta l’esperienza della comunione col divino sa che nulla al mondo lo potrà separare dal suo Dio che in lui ha posto un seme d’eternità. Dio è con lui e lui con Dio».
È questo ciò che accade al profeta Elia.
È questo che spiega per ogni credente autentico il grande scrittore russo Flodor Dovstoevskij nella sua opera I demoni: «La mia immortalità è indispensabile perché Dio non vorrà commettere un’iniquità e spegnere del tutto il fuoco di amore dopo che questo si è acceso per lui nel mio cuore... Se ho cominciato ad amarlo e mi sono rallegrato del suo amore, è mai possibile che lui spenga me e la mia gioia e ci converta in zero? Se c’è Dio anch’io sono immortale!».