I giusti brilleranno in Dio
 

«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio, nessun « tormento le toccherà... Essi sono nella pace... La loro speranza è piena di immortalità... Risplenderanno come scintille nella stoppia in fiamme, vagolando qua e là ».
Abbiamo ascoltato questi versi sicuramente durante la celebrazione di qualche liturgia funebre.
Essi sono tratti dal capitolo 3 del libro biblico che abbiamo presentato la scorsa settimana, quello della Sapienza, scritto in greco forse attorno al 30 a.C. Ebbene, dopo aver messo in bocca ai malvagi un inno al materialismo e al piacere, l’autore sacro descrive il destino che attende il giusto oltre la frontiera della morte.
L’atmosfera filosofica respirata nella sua città, forse Alessandria d’Eglito, fa sì che lo scrittore rimandi al linguaggio di Platone: egli, infatti, parla di athanasìa, “immortalità”, e chi ha fatto il liceo sa quanto questo tema fosse capitale in alcuni "dialoghi" del celebre filosofo greco, come il Fedone o il Critone. Tuttavia la visione immortalistica dei Libro della Sapienza non si identifica con quella greca. Per quest’ultima, l’immortalità era una qualità insita all’anima, che non poteva corrompersi perché spirituale.
Per la Sapienza, invece, l’immortalità è dono e grazia perché implica una comunione piena con Dio, fioritura di quell’intimità che il giusto godeva già durante l’esistenza terrena attraverso la sua fedeltà al Signore e alla sua legge.
Nella citazione che noi abbiamo fatto in apertura è suggestiva l’immagine delle scintille che lasciano scie luminose nel cielo notturno: è l’esaltazione del destino di luce che attende il giusto, come già cantava il profeta Daniele quando ricordava che « i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento e coloro che avranno indotto i molti alla giustizia risplenderanno come stelle per sempre» (12,3).
Tra l’altro, la concezione neopitagorica immaginava che le anime si trasformassero nelle stelle della Via Lattea.
Gli empi, invece, secondo la Sapienza sono votati all’Ade, cioè agli Inferi (in ebraico Sheol) ove prima si riteneva approdassero tutti i defunti: ora esso è la sede soltanto dei peccatori e diventa così il nostro inferno.
Il poeta biblico fa intonare a loro, giunti a quell’approdo tenebroso, un canto malinconico.
Tutta la loro ricchezza e superbia è passata «come ombra e notizia fugace, come una nave che solca l’onda agitata, del cui passaggio non resta traccia né scia della carena sui flutti.
Come un uccello che vola per l’aria senza lasciar segno della sua corsa..., come quando, scoccata una freccia al bersaglio, l’aria si divide e ritorna su sé stessa..., così anche noi, appena nati, siamo già scomparsi, consumati dalla nostra malvagità.
La speranza dell’empio è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta, come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un sol giorno» (5,9-14).