Tre impegni con Dio Sette con il prossimo
 
  
All’inizio del ‘900 un frammento di papiro, chiamato poi dal nome dello scopritore Papiro Nash, svelò il testo del Decalogo biblico. Prima della famosa scoperta di Qumran (Mar Morto), avvenuta nei 1947, e di qualche altra testimonianza, questo piccolo testo — che costituiva il resto di una “filatteria”, cioè di uno di quei rotolini con passi biblici conservati in teche di cuoio, indossate dagli Ebrei nella preghiera — era lo scritto ebraico biblico più antico a noi giunto (I sec. a.C.).

È da alcune settimane che anche noi stiamo interessandoci a quelle antiche “dieci parole”, il Decalogo appunto, percorrendole nel loro significato genuino. Abbiamo già commentato il primo comandamento.
Ora è la volta del secondo: «Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio» (Esodo 20,7).
Sentendo questo monito, tutti pensano spontaneamente alla condanna della bestemmia. Questo è vero, ma il precetto ha un valore più ampio e ricco. Infatti, è chiamato in causa il «nome», che per il semita è la stessa realtà di un essere, nome pronunziato «invano»: ora in ebraico si ha shau” che indica piuttosto la “vanità”, il “vuoto” dell’idolo.

II comandamento, allora, colpisce ogni deformazione del vero volto di Dio, ogni degenerazione religiosa, ogni superstizione e magia e ci richiama alla purezza della fede, sulla scia dell’invocazione del Padre Nostro: «Sia santificato tuo nome!».
Eccoci, poi, col terzo comandamento al sabato: esso è una specie di oasi nel tempo, dove si ritrova l’armonia della creazione e si entra nel “riposo” di Dio, cioè nell’eternità (Esodo 20,8-11).
Un’eternità pregustata proprio nel culto, nella preghiera, nella quiete dell’anima
L’«onorare il padre e la madre», quarto comandamento, apre la serie dei precetti “orizzontali” che riguardano il prossimo, come i primi tre, “verticali”, riguardavano Dio. Questo appello è il cardine della vita sociale perché nel padre e nella madre si riassumono tutte le relaziom familiari, tribali e nazionali.

Il «non uccidere!» — quinto comandamento — è in positivo l’esaltazione del diritto alla vita, considerata una realtà sacra: «Chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso, perché a immagine di Dio egli ha fatto l’uomo» (Genesi 9,6).

II «non commettere adulterio» — sesto comandamento — proclama il diritto al matrimonio e vede nella sessualità non solo un ambito fisiologico ma anche l’orizzonte dell’amore personale, «forte come la morte» (Cantico 8,6).

Il settimo comandamento, prima ancora che alla tutela della proprietà, mira alla libertà: «non rubare» significa nell’originale ebraico innanzitutto “non commettere un sequestro di persona” a scopo di schiavizzazione. La verità e la tutela dell’onore di ogni persona, soprattutto in sede giudiziaria, sono l’oggetto dell’ottavo precetto, mentre il nono e il decimo proclamano il diritto alla proprietà e all’autonomia sociale ed economica. A ben pensare, i dieci “no” del Decalogo devono trasformarsi in dieci " sì ", cioè in altrettanti impegni positivi di vita, di giustizia e di amore.