IMPOLVERARSI CON LA TERRA


En archè en o Logos, «In principio era la Parola»: è stata questa la frase biblica che la scorsa settimana abbiamo presentato cercando di svelarne la bellezza, celata sotto l’apparente povertà. Noi ora continueremo a seguire l’inno che fa da prologo al vangelo di Giovanni, un testo di straordinaria suggestione e poesia, oltre che di grande densità e intensità teologica. «La voce dell’aquila spirituale risuona all’interno della Chiesa...». Sappiamo che la tradizione ho raffigurato Giovanni con l’immagine dell’aquila che vola nei campi infiniti del cielo. Questa immagine è ripresa nella frase introduttorio, appena citata, di un antico commento all’inno giovonneo. A comporlo è stato un teologo irlandese di nome Giovanni Scoto Eriugena, vissuto alla corte del re-filosofo Carlo il Calvo. Egli scrisse tra l’865 e l’870 un Prologo di Giovanni che è considerato un capolavoro della lingua latina medievale e comincia proprio con l’appello sopra evocato. Si tratta di una gemma filosofico-teologica e poetica che, in forma di omelia, segue l”aquila spirituale”, cioè l’evangelista, che vola con ali veloci verso l’Inconoscibile, cioè il mistero divino. In questo folle volo si approda alla scoperta spirituale che è anche il vertice dell’inno giovanneo. Esso, infatti, ha come picco la celebre frase «Il Logos divenne carne» (1,14). Una dichiarazione scandalosa per il mondo greco perché il purissimo Logos divino, la Parola suprema e trascendente, non poteva impolverarsi con la terra né tanto meno imprigionarsi nella fragilità della nostra carne ed essere lambita dal dolore e colpita dalla morte. Il cristianesimo, invece, afferma che Dio non ha esitato a entrare nel ventre di una donna per diventare carne e sangue, corpo e tempo. Lo scrittore antico Scoto Eriugena, allora, affermava che — con l’ingresso di Dio nel mondo degli uomini — anche «questa pietra e questo legno per me sono luce».
A questo punto vorremmo lasciare la parola a un altro scrittore più vicino a noi, l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), che, pur essendo agnostico, ha voluto cantare a suo modo il mistero dell’Incarnazione. E l’ha fatto con una poesia pubblicata nel 1969 nella raccolta Elogio dell’ombra con un titolo significativo, Giovanni 1,14 (il versetto da noi citato). Si tratta di una specie di “autobiografia” che Cristo, il Verbo incarnato, narra. Forse il testo non risulterà facile: invitiamo a seguirlo con pazienza, verso perverso. E il tentativo di mostrare l’ingresso di Colui che è eterno (E', Fu, Sarà») nel tempo, nelle piccole realtà quotidiane e nella morte.
«lo che sono l’E', il Fu e il Sarà / accondiscendo ancora al linguaggio, / che è tempo successivo e simbolo... / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce».