LA SCARNA PROSA DI MARCO


Ad accompagnarci nella liturgia domenicale — escluso il prossimo periodo quaresimale e pasquale— sarà quest’anno il Vangelo di Marco, il più breve dei quattro con le sue 11.229 parole (contro le 19.404 di Luca, le 18.275 di Matteo e le 15.416 di Giovanni). Un Vangelo in passato messo in seconda fila nella convinzione (erronea) che fosse un riassunto di quello di Matteo, come dichiarava sant’Agostino: «Marco è il valletto e il compendiatoredi Matteo... Èil più divino degli abbreviatori».
In realtà le cose stanno al contrario:Marco, infatti, fu lo fonte principale a cui attinsero sia Matteo e sia Luca.
Il suo è un dettato che oggi conquista il lettore abituato alla secchezza della prosa moderna, aliena dalla retorica, dalla declamazione e dall’enfasi. Le sue sono frasi brevi, introdotte da un kai, in greco “e”, o da un “subito” o “di nuòvo”.
È una povertà che genera un’impressione di vivacità e di immediatezza, ma che non disdegna le
pennellate pittoresche, come nel caso della descrizione dell’abbigliamento del Cristo della Trasfigurazione: «Le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra sarebbe in grado di sbiancarle cosi!» (9,3).
Della forza narrativa e spirituale di questo libro “povero” ma efficace è testimone uno scrittore che abbiamo già avuto occasione di citare, l’argentino Jorge L. Borges (1899-1986), in un racconto intitolato appunto Il Vangelo secondo Marco (1970). Siamo in una sperduta fattoria del Perù; è il 1928. Lo studente in medicina Baltasar giunge in vacanza presso quei contadini primitivi, i Gutre, padre, figlio e «una ragazza di incerta paternità». Un’inondazione isola la fattoria e Baltasar scopre una Bibbia in inglese presente in quella fattoria; per ingannare il tempo, legge ogni sera —traducendolo — un brano del Vangelo di Marco ai Gutre.
Costoro, nella loro semplicità, non solo ne restano affascinati, ma anche completamente catturati e si convincono a poco a poco che quegli eventi non appartengono a una storia passata ma devono ancora accadere nelloro presente. E così i Gutre identificano nel giovane studente Baltasar proprio quel Messia descritto dal Vangelo di Marco. Allora, prima che egli parta, quando le acque dell’inondazione stanno ritirandosi, essi hanno già preparato il suo Golgota. Ed ecco la finale sconvolgente. «Genuflessi sul pavimento di pietra, gli chiesero la benedizione. Poi lo maledissero, gli sputarono addosso e lo spinsero in fondo al cortile. La ragazza piangeva. Quando aprirono la porta, Baltasar vide il firmamento. Un uccello gridò, pensò: E un cardellino! Il capannone era senza il tetto; avevano staccato le travi per costruire la croce». Anche se in una forma deviata, il Vangelo di Marco s’era rivelato un testo tutt’altro che neutro o smorto: esso era capace ancora di infiammare, d far diventare attuale e presente quella storia antica «di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota», come scriveva ancora Borges. Una forza trasformatrice che nasce dalla sua “ispirazione11 divina ma anche dalla sua bellezza ispirata.