IL "PADRE PRODIGO"


Lo scorso 8 marzo, col mercoledì delle Ceneri, siamo entrati nella Quaresima, il tempo della “conversione”, che nella lingua dell’Antico Testamento, l’ebraico, è espressa attraverso il verbo shub, che letteralmente significa “ritornare”. È curioso notare, infatti, che il peccato è espesso definito in ebraico con vocaboli che indicano o l’andar fuori pista o il perdere la rotta o il fallire il bersaglio: la conversione sarà allora un “ritorno” sulla via giusta, sulla traiettoria esatta.
Ora, Gesù ci ha offerto una stupenda parabola che descrive un ritorno-conversione: è quella che siamo soliti chiamare del “figlio prodigo” e che è riferita da Luca(15,11-32). Facciamo subito un’osservazione preliminare. Quel titolo non corrisponde del tutto al valore profondo della parabola. Si dovrebbe, infatti, intitolarla come la storia “del padre prodigo” di amore nei confronti “del figlio prodigo” nel peccato. Al centro della parabola c’è, in realtà, il padre che attende e accoglie il figlio minore perduto che “ritorna” alla casa paterna.
Centrale è, quindi, la grazia divina che ci attira a sé, è la passione del Signore per la sua creatura, anche quando essa perde la strada e se ne va lontano, vagabondando, fuori della casa paterna. Il pittore Rembrandt, nella tela che ha dedicato a questa parabola nel 1669 e che è conservata all’Ermitage di San Pietroburgo, ha giustamente posto al centro e di fronte la figura del padre che si curva per avvolgere tra le sue braccia il figlio inginocchiato e pentito, ripreso di spalle.
Con una simile interpretazione il pittore olandese aveva mirabilmente interpretato il senso profondo di questa storia d’amore, che è stata poeticamente ripresa anche dallo scrittore francese Charles Péguy nella sua opera Il Portico del mistero della seconda virtù (1911). Lo stesso autore ricordava che in questa parabola si scopre che Dio prova, proprio come un padre, l’inquietudine e l’ansia per la creatura che lo abbandona. E padre David Maria Turoldo intitolava un commento a questa parabola in modo lapidario: Anche Dio è infelice (1991).
Tornando al testo evangelico, nel versetto 13 del capitolo 15 di Luca si dice in greco che quel figlio apedémesen, cioè se ne andò dal suo demos, dalla sua patria, dal suo popolo, verso una regione remota. Nel versetto 15 è descritto mentre vaga senza meta e lentamente precipita nella miseria. E questa la via della fuga e del peccato che, come si diceva, la Bibbia raffigura come una deviazione, un fallire la meta vera. Ma nel versetto 17 ecco apparire il verbo del “ritorno-conversione”: «Il giovane ritornò in sé stesso». E un ritorno interiore, alle radici della coscienza. Segue la decisione: «Mi alzerò e andrò da mio padre».
L’obiettivo si sposta ora all’altro capo della strada ove c’è il padre che spia all’orizzonte, mai rassegnato alla perdita del figlio. Da lontano egli riconosce il profilo del viandante e «gli corre incontro» per l’abbraccio. E nella gioia del ritrovamento per due volte ripete: «Questo figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato!». Sulla stessa via s’era consumata una tragedia; ora si celebra la festa.