LA SFIDA DELLA LIBERTA'


Nel numero dell’ giugno del 1991 della rivista La Civiltà Cattolica il gesuita Ferdinando Castelli aveva pubblicato un intero saggio, Scrittori moderni dinanzi alla parabola del figlio prodigo, passando in rassegna Papini, Santucci, Mauriac, Burgess, Fabbri, Péguy, Rilke, D’Annunzio, Gide e Turoldo. Ebbene, anche noi, riprendendo il filo del discorso aperto la scorsa settimana su questa celebre parabola narrata da Luca (15,11-32), vorremmo mostrare come la sua bellezza letteraria e la sua intensità spirituale abbiano inciso nella cultura dell’Occidente e, quindi, anche nella vita di molte persone, talora non credenti.
Anzi, c’è un caso in cui la parabola è stata ripresa e siravolta nel suo significato originario. Ne vogliamo render conto anche ai nostri lettori che forse rimarranno sconcertati da questa rilettura. Essa mostra come il Vangelo possa essere sia pietra di fondazione sia pietra d’inciampo. Il romanziere ateo francese André Gide (1869-1951) nel 1907 a Parigi scriveva un’opera intitolata Il ritorno del figlio! prodigo: abbiamo già notato la scorsa volta quanto sia importante il “ritorno” nella trama della parabola di Gesù, anche perché nell’Antico Testamento il verbo shub, “ritornare”, indicava anche la conversione.
Per lo scrittore francese, protagonista è il vero discepolo di Cristo il quale, paradossalmente, per essere tale deve abbandonarè la casa della Chiesa, custodita dal fratello maggiore, legalista e rigorista, per cercare la libertà, “l’amore che consuma”, l’inquietudine che salva. Infatti il padre — secondo Gide— lo comprende: «So quel che ti spingeva sulle strade; e ti aspettavo al termine. Mi avresti chiamato e io sarei stato là». Abbandonare la casa diventa, allora, un dovere perché in essa vivono solo coloro che «preferiscono all’amore il buon ordine».
Purtroppo - continua lo scritto -la tentazione di ritornare a quel grembo, tutto sommato sicuro, di schiavitù è forte. Per viltà o per comodità il figlio rientra nella sua casa e il suo “ritorno” non è una conversione ma il peccato per eccellenza: «Mi studierò di assomigliare al mio fratello maggiore; amministrerò i nostri beni; come lui prenderò moglie». Ma a questo punto Gide introduce un personaggio ignoto al Vangelo, un fratello più piccolo.
E' lui che raccoglie l’appello implicito del fratello sconfitto e nella notte fugge di casa per mordere «la melagrana selvatica» della libertà, «una sete che solo questo frutto non zuccherino riesce a spegnere». Il fratello lo sosterrà in questa decisione coraggiosa: «Abbracciami, ragazzo mio: porti con te tutte le mie speranze. Sii forte; non ricordarci, non ricordarmi. Possa tu non tornare!... Scendi adagio. Io tengo la lampada».
Penso che ogni lettore sia in grado di giudicare il vizio di fondo di questa reinterpretazione ma anche il suo valore: per restare o ritornare nella casa-Chiesa è necessario essere liberi e autentici. Lo stesso Gide, in un’altra sua opera, Numquid et tu?, aveva confessato: «Signore, non perché mi sia stato detto che tu eri il figlio di Dio ascolto la tua parola; ma perché la tua parola è bella sopra ogni parola umana, io riconosco che tu sei il figlio di Dio».