CROCE ASPRA E AMARA


La nostra rubrica porta un titolo che risulta stridente con la settimana che stiamo per vivere, quella della passione e morte di Gesù. La croce, infatti, era un segno brutto perché era «il supplizio degli schiavi», come diceva lo storico romano Tacito, o dei “terroristi”, ribelli al potere romano. Siamo stati noi, poi, a renderlo bello issandolo sulle vette dei monti e sulle cime delle chiese, fondendolo nell’oro e nell’argento. La sofferenza di Cristo è aspra e amara, eppure esercita sempre una forza di attrazione misteriosa, come confessava uno scrittore agnostico che abbiamo avuto occasione di citare già altre volte, Jorge L. Borges (1899-1986).
Ecco alcuni versi del suo Cristo in croce: «La barba nera pende sopra il petto. / Il volto non è il volto dei pittori. / È un volto duro, ebreo. / Non lo vedo / ma insisterò a cercarlo / fino al
giorno dei miei ultimi passi sulla terra». Il realismo delle piaghe, del dolore e della morte di Gesù erano per i Vangeli la prova più forte dell’Incarnazione: Cristo entra proprio nel nostro orizzonte quando beve il calice delle lacrime, diventa veramente nostro fratello quando muore e il suo cadavere è fatto scivolare in una tomba, è accanto a noi in pienezza quando sperimenta il silenzio del Padre divino e sulla sua anima scende il sudano della tenebra interiore.
È ciò che ha ben espresso padre David M. Turoldo in uno dei suoi famosi Canti ultimi (1991): «No, credere a Pasqua non è / giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera è al venerdì santo / quando Tu non c’eri lassù! / Quando non una eco / risponde I al suo alto grido / e a stento il Nulla / dà forma / alla tua assenza». Cristo crocifisso diventa, così, il simbolo di ogni dolore e, come tale, anche un segno di liberazione e di speranza per tutti gli uomini. Ecco un esempio suggestivo in questa poesia di un poeta libanese musulmano contemporaneo, Mahmud Subh: «La tua croce, Nazareno, è l’agonia di un flauto. / La mia gola è di spine, le mie mani un braciere. / E, come te, io vivo ancora! / A Betlemme, per incontrarti, ho attraversato il ponte dei chiodi. / La tua morte è la mia, il tuo sangue è il mio. / E, come te, io vivo ancora! / Ho seguito il cammino della croce, / ho conosciuto il tormento del Profeta, / sono stato tradito. Mille Giuda gridano: / Crocifiggete l’arabo!».
In filigrana alla passione di Cristo, considerato “il Profeta” dall’Islam, il poeta vede il calvario vissuto dal suo popolo. La storia di Gesù diventa una vicenda universale di dolore ma anche di speranza per due volte nella poesia si proclama la risurrezione, «e, come te, io vivo ancora!». Aveva ragione il famoso autore del Dottor Zivago, lo scrittore russo Boris Pasternak (1890-1960) quando vedeva convergere verso Cristo tutti i secoli della storia dell’umanità. Così scriveva nella poesia L’orto del Getsemani: «Scenderò nella bara e il terzo giorno risorgerò, / e, come le zattere discendono i fiumi, in giudizio, da me, come chiatte in carovana, / affluiranno i secoli dell’oscurità».