IL VENTO DI DIO


Questa volta cercheremo di riannodare il filo del discorso della precedente settimana. La festa di Pentecoste ci aveva permesso di introdurre un simbolo caro alla Bibbia per rappresentare lo Spirito, cioè il vento. Spiegavamo che questo era dovuto anche all’ebraico che con un unico termine, ruah, indica sia il vento sia lo Spirito (qualcosa del genere accade anche col greco pneuma). L’ambiguità di questi due significati rende qualche volta difficile l’interpretazione di alcuni testi. Così, ad esempio, la famosa frase della Genesi (1,2): «Lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque» può essere tradotta anche così: «Il vento di Dio (cioè fortissimo) spirava sulle acque». Nel primo caso si avrebbe la descrizione dell’atto creativo di Dio; nel secondo si presenterebbe, invece, il nulla - sotto l’immagine della tempesta marina - che Dio piega con l’atto creativo.
Ma il vento-Spirito è messo in scena in una pagina biblica grandiosa e surreale, un testo veramente “bello” da inserire in un’ideale antologia della Bibbia. Si tratta del capitolo 37 del libro di Ezechiele. Il profeta è condotto quasi su un picco e da lì contempla in visione una distesa sterminata di scheletri calcificati, abbandonati in una valle.
La scena appariva dipinta già nella sinagoga di Dura Europos in Siria, nella metà del III secolo, anche se ora quegli affreschi sono conservati nel Museo di Damasco. In essi le varie fasi della risurrezione sono raffigurate come un’unica striscia, con uno stile molto incisivo e vigoroso: le anime dei morti sono, ad esempio, rappresentate come esseri dalle ali di farfalla, pronte a spiccare il volo della vita. Un’altra testimonianza artistica suggestiva è un manoscritto miniato greco del IX secolo con le omelie di un Padre della Chiesa, san Gregorio Nazianzeno.
Ma l’esempio più famoso è quello degli affreschi che Luca Signorelli dipinse attorno al 1500 nella cappella di San Brizio del duomo di Orvieto. Ancora ai nostri giorni, però, un musicista, Walter Jacob, maestro d’organo di Stoccarda, nato nel 1938, ha messo in musica la visione di Ezechiele col titolo latino De visione resurrectionis; essa è inoltre evocata, con le altre versioni ezecheliane, nel Libro d’organo del compositore francese Olivier Messiaen (1951). Per il mondo cristiano la scena prefigura la risurrezione finale dei giusti. In realtà, il profeta usa la risurrezione carnale come simbolo per rappresentare l’attesa rinascita nazionale di Israele, ora schiavo e quindi “morto” nell’esilio di Babilonia. Non per nulla il finale vede in azione «un esercito immenso, sterminato».
Tuttavia, se pure in questa forma ridotta, si intravede che anche la fede dell’antico Israele sperava che lo Spirito creatore di Dio potesse tornare a soffiare sui corpi conquistati dalla morte. Cantava il salmista: «Tu non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo fedele veda la corruzione. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (16,10-11).