TUTTI ALLA STESSA META


Chi più tardi, chi più presto, tutti ci affrettiamo a « una stessa meta; tutti tendiamo là, all’ultima dimora». Così, con amarezza, scriveva il poeta latino Ovidio (43 a.C - 17/18 d.C.) all’amata Livia dal suo esilio di Tomi sul Mar Nero (Consolatio ad Liviani 359). Così, in tutti i secoli, in tutte le terre e in tutte le culture si è guardato con malinconia al tramonto della vita. Certo, molte religioni hanno squarciato quel crepuscolo, aprendo orizzonti di speranza e di luce. Pensiamo all’annunzio pasquale cristiano ma anche all’attesa dell’Islam che prega così: «Dio mio, fa’ che la morte sia per noi il migliore degli assenti, la tomba più bella delle case. Concedici di morire nel desiderio di incontrarti».
Questa fiducia, però, non esclude che la creatura sperimenti la lacerazione del distacco e ciò che proviamo in questi giorni dedicati alla memoria dei defunti è profondamente “umano”. Anche la Bibbia ne è consapevole e a più riprese ci presenta la paura della morte, una paura sperimentata dallo stesso Cristo che chiede al Padre, «se possibile», di far passare oltre il calice della morte (Marco 14,36). Noi mediteremo ora sulla caducità della vita con «una delle più belle elegie del Salterio», come uno studioso, H. Ewald, ha definito il Salmo 39, una lamentazione-meditazione sul “male di vivere” e sulla radicale fragilità dell’esistenza umana.
Il poeta biblico sembra un fratello di un altro autore sacro, Qohelet: non per nulla usa tre volte un vocabolo caro a quel sapiente, hebel che significa “soffio, vuoto, vanità”: «Sì, come soffio è ogni uomo... sì, come soffio si agita..., sì, un soffio è ogni uomo» (vv. 6.7.12). Ma ecco altre parole tristi affiorare alle labbra di questo orante: «Rivelami, Signore, la mia fine, / quale sia la misura dei miei giorni / e saprò quanto io sono effimero. / Ecco di pochi palmi hai fatto i miei giorni, /la mia durata è un nulla davanti a te... / Sì, come ombra è l’uomo che passa... / Non essere sordo, Signore, ai miei singhiozzi, / perché io sono uno straniero, / un pellegrino come tutti i miei padri. / Distogli il tuo sguardo, che io respiri, / prima che me ne vada e più non sia» (vv. 5-7.13-14).
Come diceva Shakespeare nel Macbeth, l’uomo è «un’ombra che cammina»; per il salmista è uno straniero, un pellegrino, un nomade come lo erano i padri del deserto. La sua vita ha una lunghezza non più estesa di pochi palmi. L’uomo, insomma, per ricorrere alle costanti immagini della poesia universale, è solo «un triste viandante sulla terra oscura» (Goethe), con l’unico approdo della morte. Non per nulla l’ultima preghiera di questo orante — che non è ancora sostenuto dalla speranza pasquale neotestamentana o di altri suoi fratelli del Salterio (vedi i Salmi 16; 49; 73) — è “povera”: o Dio, lasciami un attimo di respiro e di tregua, «prima che me ne vada e più non sia» (v. 14).