I PROVERBI NUMERICI DI AGUR


Chi apre il libro biblico dei Proverbi -- di cui la liturgia di questa domenica ci propone una bella pagina (9, 1-6) -- si accorge che è simile a un’antologia nella quale sono presenti vari autori, alcuni nominati, altri lasciati anonimi. Così c’imbattiamo in due raccolte di «Salomone, figlio di Davide, re d’Israele» (capitoli 1-9 e 10-22); poi entrano in scena alcuni sapienti innominati (capitoli 23-24); appaiono anche alcuni scribi del re Ezechia (VIII sec. a.C.) che avrebbero redatto materiali più antichi preesistenti (capitoli 25-29); infine, ecco due sapienti arabi, Agur e Lemuel, mentre tra i non citati per nome c’è anche l’egiziano Arnen-em-ope a cui si può far risalire la serie di consigli presenti da 22,17 fino a 24,22.

Ebbene, da questa pattuglia di sapienti dell’antico vicino Oriente vorremmo far emergere un autore quasi ignoto ai più: è quell’Agur al quale è attribuito l’intero capitolo 30. Di lui non sappiamo quasi nulla. Nel libro dei Proverbisi legge solo questa frase: «Detti di Agur, figlio di Iakè, da Massa». San Girolamo, nella sua famosa versione latina della Bibbia chiamata la Volgata, ha scambiato questi nomi propri per parole comuni e ha tentato di tradurli ricorrendo alla loro assonanza con vocaboli ebraici simili e ne ha ricavato un risultato quasi comico, analogo a quello dei ragazzi che a scuola prendono un abbaglio nelle traduzioni: 4Parole di colui che raccoglie, figlio di colui che vomita”...!

L’unico indizio per sapere qualcosa sulle origini del nostro Agur e del collega Lemuel, presente nel successivo capitolo 31, è la località Massa (o Massai). Si tratta di una tribù nord-arabica che fa capolino già nella Genesi (25,14). Là, infatti, si dice che uno dei figli di Ismaele, figlio di Abramo e capostipite degli Aiabi, era appunto Massa, un principe che ha dato il nome alla tribù. La notizia è confermata in una tavola genealogica presente nel primo Libro delle Cronache (1,30).

I detti di Agur sono tutti da leggere perché sono di grande finezza, a partire da quella realistica e un po’ sconsolata consapevolezza di sapere poco riguardo al mistero di Dio e dello stesso universo: «Sono stanco, o Dio, sono stanco, o Dio, e vengo meno, perché io sono il più ignorante degli uomini...» (30,1-2). E subito dopo egli fa scattare una batteria di domande sugli enigmi celesti e terrestri. Suggestiva è anche la sua teoria del ugiusto mezzo”, simile a quell’aurea mediocritas che secoli dopo avrebbero esaltato alcuni sapienti greci e latini.

Dice, infatti, Agur in una sorta di preghiera: «Io ti domando due cose, non negarmele prima che io muoia: Tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza; fammi avere solo il cibo necessario, perché, se fossi troppo sazio, io ti rinnegherei e direi: Chi è il Signore? Oppure, se fossi ridotto all’indigenza, ruberei e profanerei il nome del mio Dio» (30,7-9). Curiosi sono anche i cosiddetti “proverbi numerici”, giocati sul 3 e 4, così da alludere al 7, segno di pienezza, anche se poi si elencano solo quattro realtà. Essi sono presenti in 30,15-33. Eccone un esempio: «Tre cose non sono mai sazie, anzi quattro non dicono mai: Basta! Gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia di acqua e il fuoco che mai dice: Basta!» (30,15-16).